Alla riscoperta dello Spinosauro

di Davide Bertè e Daniele Tona – settembre 2014

1944, Monaco di Baviera – Germania.

Davide Bertè
Davide Bertè

L’Europa è devastata già da cinque anni da quella che sarà nota nei libri di storia come Seconda Guerra Mondiale. E’ la notte tra il 24 e il 25 aprile, e il Quinto Gruppo del Bomber Command dell’aeronautica militare inglese bombarda Monaco di Baviera, importante centro di potere del nazionalsocialismo. Tra i vari edifici distrutti durante l’attacco v’è anche il Museo di Storia Naturale,

le cui collezioni vengono annientate. In particolare, ai fini della storia che vogliamo raccontare, viene distrutto anche l’unico esemplare noto di spinosauro (Spinosaurus aegyptiacus).

Daniele Tona
Daniele Tona

Dell’esemplare rinvenuto presso l’oasi di Baharia in Egitto, rimane fortunatamente la descrizione redatta da Ernst Stromer (1870-1952) nel 1915, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, in un lavoro molto accurato e corredato da splendide tavole molto dettagliate.

Nel dopoguerra i resti di spinosauro rinvenuti furono molto rari e di fatto di questo animale restava in gran parte misterioso. Questo fino a pochissimo tempo fa, quando è stata annunciata la scoperta di nuovo materiale fossile appartenente a questo dinosauro. L’anteprima europea si è tenuta presso il Museo di Storia Naturale di Milano il 18 settembre 2014 in quanto questo importante lavoro (Ibrahim et al. 2014, pubblicato sulla rivista Science), che ha fatto luce su diversi aspetti prima sconosciuti di questo animale, ha visto una forte partecipazione da parte di un’equipe italiana.

Spinosauro - Stromer 1915
Spinosauro – Stromer 1915

La nostra storia comincia con il rinvenimento nella regione del Kem Kem, in Marocco, di alcune vertebre caratterizzate da processi neurali molto lunghi. La fotografia dei reperti lascia di stucco i paleontologi Cristiano dal Sasso e Simone Maganuco, che capiscono di trovarsi di fronte a qualcosa di eccezionale. I due paleontologi meneghini conoscono bene lo spinosauro in quanto nel Museo Civico di Storia Naturale di Milano è conservato il cranio più grande rinvenuto finora, proveniente dal Marocco. Viene avviata una collaborazione con il collega Nizar Ibrahim di Casablanca, in possesso di altri frammenti dello stesso esemplare e con altri paleontologi americani di Chicago. I finanziamenti della National Geographic Society, ottenuti grazie al coinvolgimento del paleontologo americano Paul Sereno, rendono possibile l’avvio di una cooperazione internazionale tra i paleontologi dei vari paesi, il cui risultato è il lavoro presentato a Milano nei giorni scorsi.

Davide Bonadonna (illustratore) - Cristiano Dal Sasso (Paleontologo, curatore al Museo St.Nat. di Milano) - Dawid Iurino (per le TAC) - Simone Manganuco (Paleontologo - PHD a Firenze)
Davide Bonadonna (illustratore) – Cristiano Dal Sasso (Paleontologo, curatore al Museo St.Nat. di Milano) – Dawid Iurino (per le TAC) – Simone Manganuco (Paleontologo – PHD a Firenze)

Benché noto alla scienza ormai da un secolo, lo spinosauro è divenuto celebre tra il grande pubblico solo nel 2001 con la pellicola Jurassic Park III, dove sfida e sconfigge il terribile T. rex. Nella realtà tale incontro non sarebbe mai potuto avvenire perché lo spinosauro visse tra i 112 e i 97 milioni di anni fa (Albiano-Cenomaniano, nel periodo Cretaceo), ovvero più di 30 milioni di anni prima del tirannosauro, vissuto tra 68 e 65 milioni di anni fa nel Maastrichtiano. Di sicuro non sarebbe stato capace di spezzare il collo al T. rex come fa nel film, dato che le sue mascelle erano molto strette e con ogni probabilità incapaci di resistere alle forze in gioco, ma c’è del vero nel fatto che lo spinosauro è il più grande dinosauro teropode scoperto finora: il lavoro di Ibrahim e colleghi stima una lunghezza di circa 15 metri e un peso intorno alle 7 tonnellate per il proprietario del rostro marocchino ospitato a Milano, il che lo renderebbe di un paio di metri più lungo del tirannosauro più grande conosciuto, l’esemplare soprannominato Sue. Lo spinosauro reale era però ben diverso da quello cinematografico; come vedremo fra poco, era molto, molto più bizzarro, come neanche lo sceneggiatore più fantasioso sarebbe riuscito a concepire.

Lo spinosauro è classificato all’interno degli Spinosauridae, una famiglia abbastanza primitiva di dinosauri teropodi all’interno dei tetanuri, il gruppo che spazia da Compsognathus (uno dei più piccoli dinosauri conosciuti, uccelli esclusi) al nostro Spinosaurus (il più grande teropode noto). Il genere Spinosaurus era tipicamente africano ma agli spinosauridi appartenevano anche generi provenienti da altre parti del mondo: dal Sudamerica sono noti Irritator e Angaturama, finora rinvenuti solo in Brasile (e che forse erano lo stesso animale), così come Oxalaia; in Europa era presente il genere Baryonyx (che in greco significa “artiglio pesante”), così chiamato per il grande artiglio, lungo una ventina di centimetri, presente sul pollice; dal Niger proviene invece Suchomimus (“simile a un coccodrillo” per via del muso allungato), mentre nel Laos è stato rinvenuto Ichthyovenator. Proprio il confronto con gli altri membri della famiglia, in particolare con Suchomimus del quale è ben nota l’anatomia, ha permesso di delineare in modo più dettagliato l’aspetto dello spinosauro.

 Originariamente raffigurato con la testa alta e triangolare come quella del tipico teropode, il rostro del Museo di Milano ha invece dimostrato che la testa dello spinosauro era più simile a quella di un grosso coccodrillo, caratterizzato però dalla presenza di una vela sul dorso. La vera peculiarità di questo dinosauro non erano tuttavia le dimensioni, bensì il grande adattamento a una vita semi-acquatica nei grandi fiumi che ai suoi tempi scorrevano nella regione del Marocco, oggi desertica, da cui provengono i reperti più recenti. Si tratta del primo caso accertato di un dinosauro con queste abitudini, laddove fino ad ora erano considerati animali strettamente terrestri.

Spinosaurus aveva un cranio lungo fino a 1,7 m, caratterizzato da un muso allungato e sottile che si allarga nella parte terminale dove sono presenti numerosi forami. La scansione TAC del muso è stata affidata alle sapienti mani del paleontologo romano Dawid Iurino, che ha pazientemente seguito la diramazione di tutti i nervi cranici convalidando l’ipotesi secondo cui i forami ospitavano un organo di senso meccanocettore che permetteva di percepire le variazioni di pressione nell’acqua; grazie a questo complesso organo di senso lo spinosauro era in grado di cacciare anche di notte o in acque torbide, avvertendo la presenza delle prede in base ai loro movimenti e allo spostamento dell’acqua che questi producevano. Strutture simili sono note nei coccodrilli e sono state osservate anche nei rettili marini del gruppo dei pliosauri; nello spinosauro erano però talmente specializzate che le terminazioni nervose a cui erano collegate, a loro volta unite al nervo trigemino, non innervavano anche i denti come avviene negli altri casi ed erano esclusivamente deputate alla funzione di rilevamento.

Sempre a livello del cranio i numerosi denti conici e distanziati fra loro erano un ulteriore adattamento per catturare i pesci; a differenza dei denti seghettati e compressi lateralmente presenti nella maggior parte degli altri teropodi, atti a tagliare e tranciare, quelli dello spinosauro dovevano afferrare e trattenere prede scivolose e quindi dovevano agire più come delle ganasce che come dei coltelli. Anche le narici si differenziavano nettamente, aprendosi in posizione arretrata sul muso per limitare l’ingresso di acqua nelle vie respiratorie.

Riguardo alla colonna vertebrale si nota che i centri delle vertebre cervicali e dorsali sono più lunghi rispetto a quelli delle vertebre sacrali, allungando di conseguenza il collo e il tronco; fanno eccezione i centri delle vertebre dorsali in posizione più prossimale (alla base del collo, in sostanza), che al contrario sono proporzionalmente più corti e larghi creando così un’articolazione che facilita il movimento del collo. Vertebre di questo tipo erano già note ed erano state attribuite a Sigilmassasaurus, del quale curiosamente si trovavano solo vertebre della base del collo e nient’altro; le recenti scoperte hanno dimostrato che in realtà il resto del corpo esisteva eccome, ed era lo spinosauro! Da qui la decisione di riassegnare quelle ossa a Spinosaurus colmando ulteriori parti mancanti del mosaico.

Arriviamo infine alla coda, i cui due terzi più distali hanno vertebre con centri corti e archi neurali ridotti, un adattamento simile a quello dei pesci che migliora il movimento laterale della coda ai fini della propulsione.

Spinosaurus. Confronto dimensionale e sezione degli ossi lunghi
Spinosaurus. Confronto dimensionale e sezione degli ossi lunghi

Uno dei caratteri che contraddistinguono a prima vista Spinosaurus è senza ombra di dubbio la grande vela sul dorso. Le vertebre dorsali dello spinosauro hanno dei processi neurali molto lunghi, fino a due metri, che formavano la vela che ha valso all’animale il suo nome (letteralmente “lucertola spinosa dell’Egitto”). I paleontologi si sono interrogati a lungo sulla funzione della vela e le ipotesi più accreditate erano due: una funzione di termoregolazione oppure come segnale per comunicare con altri individui della stessa specie. La nuova ricerca chiarisce anche questa questione, svelando che le vertebre avevano una struttura massiccia e compatta, priva della vascolarizzazione superficiale necessaria a una funzione termoregolatrice, ed erano quindi poco adatte a scambi di calore. Acquista perciò maggior valore la funzione di riconoscimento (o anche – perché no? – di avvertimento, del tipo “io sono qui, sono lungo quindici metri e questo è il mio territorio, entrate a vostro rischio e pericolo”); qualcuno ha persino suggerito che potesse essere una sorta di deriva al contrario, che serviva a evitare che lo spinosauro si ribaltasse mentre nuotava. Il dibattito, insomma, è ancora decisamente aperto.

Un’altra prova dell’adattamento alla vita nell’acqua è rappresentato dalle modifiche al cinto pelvico e agli arti posteriori. Le ossa degli arti, come le costole, erano molto compatte e pesanti, in controtendenza con le estese cavità che si osservano in altri teropodi, uccelli in primis. L’assenza, o comunque la forte riduzione, delle cavità midollari è una condizione tipica dei vertebrati fortemente specializzati per una vita acquatica, come i pinguini o le balene: le ossa pesanti infatti favoriscono le immersioni e stabilizzano il corpo sott’acqua, appesantendolo e contrastando la spinta verso l’alto causata dai polmoni pieni d’aria; gli autori, in effetti, paragonano il grado di adattamento dello spinosauro a quello degli archeoceti, cetacei arcaici già adatti alla vita acquatica ma ancora in grado di muoversi sulla terraferma.

Dal punto di vista morfologico le zampe posteriori sono caratterizzate da quattro dita funzionali con artigli larghi e piatti, in cui anche il primo dito contribuiva al movimento (negli altri teropodi era in genere ridotto e non toccava terra), e probabilmente erano anche palmate in modo da coadiuvare il nuoto. Si può anche notare un’ampia superficie di inserzione dei muscoli caudofemorali, sia sull’ileo sia sul quarto trocantere del femore, a indicare muscoli che consentivano una potente flessione della gamba, e quindi un più energico movimento della stessa nel darsi la spinta durante il nuoto. Lo stesso femore è più corto della tibia di modo da rendere tale movimento più efficiente.

Si pensa che lo spinosauro nuotasse spingendo alternativamente con le gambe come alcuni uccelli acquatici odierni, e che la coda offrisse supporto al nuoto ondeggiando come quella dei coccodrilli. Lo scheletro ricostruito virtualmente ha evidenziato il baricentro molto spostato in avanti, con le zampe posteriori molto più corte e quelle anteriori molto più lunghe rispetto agli altri teropodi; da ciò sembra difficile che lo spinosauro potesse mantenere una postura bipede fuori dall’acqua, poiché si sarebbe sbilanciato in avanti. Si ritiene quindi che sulla terraferma la sua andatura fosse quasi da quadrupede, con le braccia che fungevano da occasionale puntello per darsi la spinta senza però sorreggere stabilmente il corpo. Il suo modo di camminare doveva essere dissimile da quello della maggior parte degli animali di oggi, e comunque sono in corso studi biomeccanici volti a far luce su questa questione ancora tutta da chiarire.

 

L’habitat dello spinosauro era una vasta rete di corsi d’acqua, caratterizzati dall’abbondanza di pesci e da un’apparente scarsità di erbivori. Si conosce una sessantina di specie vissute in quell’ambiente; tra i teropodi vi sono Carcharodontosaurus, grossomodo della stessa taglia dello spinosauro ma più vicino al tirannosauro come ruolo ecologico, il più piccolo Rugops e Bahariasaurus (e Deltadromeus, forse suo sinonimo), dotato di corpo snello e lunghe gambe; tra i dinosauri erbivori ricordiamo il sauropode Rebbachisaurus; c’erano anche pterosauri e varie specie di coccodrilli, tra cui Laganosuchus dal peculiare muso piatto, mentre tra i pesci (e quindi le potenziali prede dello spinosauro) sono annoverati il celacanto Mawsonia, lungo 4 metri, il pesce sega Onchopristis, che poteva arrivare anche a 6-7 metri, e il pesce polmonato Ceratodus. Si pensa che lo spinosauro cacciasse questi pesci afferrandoli con le mascelle e trascinandoli a riva, dove li tratteneva coi denti e nel contempo li faceva a pezzi con gli artigli delle mani, affilati e compressi lateralmente per fendere meglio la carne.

In generale si può dire che quello dello spinosauro era un adattamento estremo, intimamente legato alle specifiche condizioni ambientali in cui questo dinosauro si è evoluto. Un adattamento così spinto fu però anche la sua condanna, poiché quando un innalzamento del livello dei mari (ciò che si definisce una trasgressione marina) ha cancellato il sistema fluviale in cui viveva non è stato in grado di adattarsi alle nuove condizioni ambientali e si è estinto.

Quale che sia stato il suo destino, lo spinosauro è la dimostrazione che i dinosauri erano (e sono ancor oggi) creature straordinarie, capaci di adattarsi e assumere forme incredibili, talvolta persino oltre la nostra immaginazione. Gli autori dell’articolo hanno dichiarato di essere al lavoro sulla monografia dettagliata dello spinosauro; possiamo dunque stare certi che questo animale non ha ancora finito di sorprenderci.

 

Bibliografia:

  • Stromer, E., Wirbeltier-Reste der baharije-Stufe (unterstes Cenoman).3 Das Original des Theropoden Spinosaurus aegyptiacus nov. gen. et nov. spec in Abhandlungen der Königlich Bayerischen Akademie der Wissenschaften Mathematisch-physikalische Klasse Abhandlung, vol. 28, 1915, pp. 1-32.

  • Ibrahim N., Sereno P.C., Dal Sasso C., Maganuco S., Fabbri M., Martill D.M., Zouhri S., Myhrvold N., Iurino D. (2014) Semiacquatic adaptations in a giant predatory dinosaur. Science. DOI: 10.1126/science.1258750

GIORNATE DI PALEONTOLOGIA A BARI, 11-13 GIUGNO 2014

Daniele Tona – giugno 2014

Impronta di dinosauro a Cava San Leonardo
Impronta di dinosauro a Cava San Leonardo
Daniele Tona esperto di dinosauri
Daniele Tona

Anche quest’anno, nei giorni 11, 12 e 13 giugno, la Società Paleontologica Italiana si è riunita per il suo congresso annuale, che per la quattordicesima edizione ha scelto come sede la città di Bari. Nel Salone degli Affreschi del Palazzo Ateneo, presso l’Università degli Studi “Aldo Moro”, comunicazioni orali e poster hanno illustrato le ultime novità da parte della comunità paleontologica del nostro paese. Come ormai è una ricorrenza annuale, anche nel 2014 Scienzafacile era presente nella persona del sottoscritto, che in queste poche righe vi riporterà i fatti più salienti della tre giorni paleontologica pugliese.

Il primo giorno del congresso, mercoledì 11 giugno, è stato interamente dedicato alle comunicazioni orali, intervallate da tre interventi a invito: il primo, di Antonietta Cherchi dell’Università di Cagliari, ha inaugurato i lavori presentando uno studio sui trend evolutivi dei foraminiferi orbitolinidi della piattaforma Apula durante il Cretaceo Inferiore, e la loro importanza come strumenti per la correlazione biostratigrafica nell’area della Tetide. Giorgio Manzi, dell’Università La Sapienza di Roma, ha aperto la seconda sessione illustrando le ricerche svolte sui resti dell’uomo di Altamura, uno scheletro umano rinvenuto in una grotta che tra l’altro ha riguardato una delle tappe dell’escursione (ma torneremo più avanti su questo). La terza comunicazione, in apertura della sessione pomeridiana, ha visto invece Cristiano Dal Sasso del Museo di Storia Naturale di Milano descrivere i risultati del lungo e accurato studio di Scipionyx samniticus, il cucciolo di dinosauro noto al grande pubblico come Ciro, per quello che riguarda la preservazione delle parti molli – ancor più incredibile di quanto si pensasse in partenza – e dei resti delle prede trovate nelle sue viscere.

Scipionyx samniticus - detto Ciro
Scipionyx samniticus – detto Ciro

Le comunicazioni orali hanno coperto come sempre una vasta gamma di gruppi tassonomici, epoche e località, spaziando nell’arco delle quattro sessioni da lavori descrittivi come quelli sul rinoceronte Stephanorhinus, sul pesce syngnathoide Gasterorhamphosus, sull’evoluzione del gatto selvatico e sui coralli pleistocenici calabresi, ad altri più mirati a studi paleoclimatici e paleoambientali tramite l’impiego dei fossili, soprattutto microfossili come foraminiferi, diatomee o pollini ma anche macrofossili come bivalvi e brachiopodi; alcuni di questi studi hanno riguardato contesti molto vicino a noi nel tempo – parliamo dell’Olocene quindi grossomodo dell’ultimo milione di anni – e sono arrivati addirittura in epoca storica come un lavoro sui sedimenti dell’antico Porto di Traiano, laddove altri hanno invece toccato epoche più remote come gli eventi anossici durante il periodo Cretaceo; in alcuni casi lo stesso sito è stato trattato da varie comunicazioni che si sono soffermate su differenti suoi aspetti: un esempio è la Formazione Pisco del Mio-Pliocene del Perù, che durante la prima giornata è stata oggetto di una comunicazione riguardante i vertebrati marini rinvenuti in essa (fra cui soprattutto i cetacei) e di un’altra sui depositi diatomitici della stessa unità, a cui si è poi aggiunta una terza presentazione l’ultimo giorno stavolta focalizzata sui cetacei della famiglia degli Ziphiidae.

Una comunicazione in particolare merita una menzione per il tipo di lavoro illustrato, riguardante i due siti pleistocenici di Coste San Giacomo e Fontana Ranuccio nel bacino di Anagni. L’Istituto Italiano di Paleontologia Umana ha infatti realizzato un’applicazione per smartphone (al momento disponibile solo per sistemi iOS e reperibile su Itunes col nome IsIPU) che fornisce una guida virtuale dei due siti, con modelli a tre dimensioni degli animali rinvenuti e ricostruzioni a realtà aumentata dell’ambiente in cui sono vissuti. Mi permetto di soffermarmi su di essa, tra tante ricerche presentate, per il suo grande potenziale come strumento di divulgazione, in quanto riesce a dare all’utente molte informazioni in modo esaustivo ma soprattutto accattivante, anche per chi non ha una conoscenza accademica dell’argomento o semplicemente non ha tempo o voglia di immergersi nella lettura di una lunga trattazione; in questo modo anche chi è un semplice appassionato può documentarsi senza che sfilze di termini tecnici rischino di ostacolare la sua comprensione. Sarebbe bello se ogni sito paleontologico, italiano e non, disponesse di analoghi mezzi per raccontare al grande pubblico la sua storia e i tesori sotto forma di fossili che ospita, di modo da rendere davvero fruibile a tutti una disciplina come la paleontologia che già di per sé suscita meraviglia e interesse anche nell’uomo della strada.

Ma torniamo al congresso e più precisamente alla seconda giornata, dedicata all’escursione sul terreno che ha coperto il territorio delle Murge a ovest di Bari. Volendo dare un piccolo inquadramento geologico dell’area, le Murge sono una serie di ampi horst e graben (ossia rilievi del territorio separati l’uno dall’altro da scarpate e aree a quota più bassa); il ripiano più elevato è noto come Alta Murgia ed è ricco di forme carsiche fra cui doline (qui chiamate “puli”) spesso di diametro e profondità molto elevati; è inoltre qui che sono ubicati il terzo e il quarto stop della giornata. Quelli che discendono via via di quota verso la costa adriatica sono invece le Murge Basse, dove si sono svolti i primi due stop. Le Murge, e più in generale l’intera Puglia, rappresentano le vestigia della placca Apula o Adria, una propaggine della placca Africana formatasi nel Paleozoico Superiore. Durante il Mesozoico la placca Apula era un margine continentale passivo presso cui si svilupparono delle piattaforme carbonatiche, una delle quali, la Piattaforma Apula, è oggi ravvisabile nei vari ammassi calcarei pugliesi tra cui anche le Murge. Nel corso dei milioni di anni la tettonica e le fluttuazioni del livello del mare portarono all’emersione delle piattaforme, creando aree in cui animali di terraferma come i dinosauri potevano transitare lasciando impronte come quelle oggetto del secondo stop. Alla fine del Cretaceo la Piattaforma Apula emerse e divenne un’area continentale interessata da carsismo; dal Miocene Inferiore divenne l’avampaese della catena appenninica in formazione più a ovest, e interessata dalla conseguente tettonica si inarcò dividendosi in vari blocchi rilevati che oggi sono il Gargano, le Murge e il Leggi tutto “GIORNATE DI PALEONTOLOGIA A BARI, 11-13 GIUGNO 2014”

GIORNATE DI PALEONTOLOGIA A PERUGIA, 23-25 MAGGIO 2013

Daniele Tona 7 giugno 2013

Daniele Tona e il livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico - Gola del Bottaccione nei pressi di Gubbio
Daniele Tona e il livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico – Gola del Bottaccione nei pressi di Gubbio

 Nei giorni 23, 24 e 25 maggio 2013 si è tenuto l’annuale appuntamento con le Giornate di Paleontologia, il congresso della Società Paleontologica Italiana giunto alla sua tredicesima edizione. Quest’anno il simposio è stato organizzato dall’Università di Perugia, che ha ospitato i lavori all’interno del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria situato nel chiostro dell’adiacente Basilica di San Domenico, in pieno centro storico del capoluogo umbro. Come ogni anno, paleontologi da tutta Italia hanno presentato i loro lavori, chi sotto forma di comunicazione orale e chi tramite uno dei molti poster sistemati sotto il porticato del chiostro.

Anche quest’anno Scienzafacile era presente alle Giornate con la sua piccola delegazione, composta da chi scrive nei panni di cronista e dall’amico Davide Bertè, che al contrario del sottoscritto è stato assai più produttivo e ha portato una comunicazione sui resti di lupo rinvenuti nella Grotta Romanelli nel Salento e un poster sulla simpatria tra specie di Canis nell’Italia del Pleistocene Inferiore.

Per prima cosa vorrei riportare due interessanti iniziative che hanno coinvolto i partecipanti più giovani al congresso. La prima, proposta direttamente dall’organizzazione e inaugurata l’anno scorso, è un concorso per ricompensare l’impegno delle nuove leve in cui sono stati premiati con una somma di denaro la miglior comunicazione ed il miglior poster presentati da un socio under 30.

La seconda è un’iniziativa nata da un gruppo di soci non strutturati della SPI battezzata Palaeontologist in Progress (o PaiP), collaterale al convegno ma patrocinata dagli organizzatori e dalla stessa Società. Si tratta di una tavola rotonda tenutasi mercoledì 22 maggio al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Perugia, dove si è discusso di varie tematiche legate alla paleontologia, alcune di carattere più accademico, quali il concetto di specie e sottospecie e l’applicazione dell’osteologia allo studio dei reperti fossili, altre invece più incentrate sulla figura del paleontologo in sé, sul suo riconoscimento presso le pubbliche amministrazioni e sulla possibilità di accedere a collezioni e database elettronici. Cosa ancor più importante, sono state discusse delle proposte poi avanzate nel corso del consesso dei soci di sabato: la prima propone, con tanto di raccolta firme, di rinunciare o quantomeno rendere facoltativa la versione cartacea del Bollettino SPI così da ridurre le spese di stampa e soprattutto di spedizione della pubblicazione, investendo poi il denaro risparmiato in fondi per studenti, dottorandi e altri soci non strutturati; la seconda proposta è stata più che altro un invito ai soci a organizzare incontri a scopo divulgativo nelle proprie città, appoggiandosi al PaiP e alla SPI per ottenere un patrocinio formale e anche la collaborazione e partecipazione di altri soci. Il tutto allo scopo di dare maggior visibilità alla figura del paleontologo e anche di avvicinare i non addetti ai lavori al mondo della paleontologia.

Veniamo dunque al primo giorno ufficiale di congresso, giovedì 23 maggio, che si è aperto con il discorso di benvenuto da parte delle autorità, nella fattispecie il curatore del Museo Archeologico, a cui è seguita la comunicazione del relatore ospite Jordi Agustì, dell’Istituto Catalano di Paleoecologia Umana e Evoluzione Sociale, che ha presentato uno studio sull’effetto indotto dalle variazioni climatiche tra la fine del Pliocene e il Pleistocene Inferiore, in particolare sugli spostamenti degli ominidi. Agustì ha illustrato il sito di Dmanisi in Georgia, nel quale sono stati rinvenuti resti datati a 1,8 milioni di anni fa e attribuiti a Homo georgicus, e quello di Barranco Leon in Spagna, contenente le più antiche (1,3 milioni di anni fa) testimonianze umane in Europa occidentale. Dallo studio è emersa una correlazione tra l’età delle migrazioni umane e il clima, dove le principali fasi di dispersione corrispondono a periodi caratterizzati da condizioni più calde e umide rispetto a oggi.

Dopo questo intervento inaugurale ha avuto il via la serie di comunicazioni presentate dai partecipanti al congresso; divise in tre sessioni di 6-7 interventi, e intervallate da pause durante le quali era possibile rifocillarsi coi prodotti locali offerti dall’organizzazione, hanno coperto un ampio spettro di epoche e gruppi tassonomici. Nel corso della mattinata si è discusso di brachiopodi e di conodonti permiani, di ammonoidi triassici, della fauna cambriana di Chengjiang, di icnofossili (sia più in generale in merito alle loro relazioni reciproche, sia nel dettaglio con riguardo alle tracce di tetrapodi del Permiano del nord Italia), di pesci (con un lavoro sulla fluidodinamica delle scaglie e uno di sistematica), di foraminiferi e di molluschi.

Le presentazioni del pomeriggio hanno riguardato i nannofossili calcarei e poi una serie di lavori sui vertebrati, con mammiferi, uccelli e anfibi sotto i riflettori. La sessione si è conclusa con una comunicazione inerente lo studio dei dati lito, bio e magnetostratigrafici (vale a dire, le caratteristiche rispettivamente delle rocce, dei fossili e del segnale paleomagnetico) della porzione paleocenica nella successione della Gola del Bottaccione, non lontano da Gubbio, allo scopo di determinare la sua compatibilità con la vicina sezione della Contessa e con altre coeve nel mondo.

Livello a iridio della Gola del Bottaccione - Foto di Daniele Tona
Livello a iridio della Gola del Bottaccione – Foto di Daniele Tona

Quest’ultima comunicazione è stata un preambolo alla breve escursione tenutasi nella seconda parte del pomeriggio proprio nella Gola del Bottaccione dove, guidati dalla professoressa Isabella Premoli Silva e dal professor Rodolfo Coccioni che hanno studiato estensivamente la sezione, i congressisti hanno potuto ripercorrere attraverso il Cretaceo la successione di strati della formazione della Scaglia Rossa fino al livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico; si tratta dell’ormai celeberrimo livello argilloso contenente quantità anomale di iridio, elemento molto raro nella crosta terrestre ma abbondante nei meteoriti, sulla base del quale il gruppo di lavoro di Walter Alvarez elaborò nel 1980 la teoria secondo cui la crisi biologica verificatasi 65 milioni di anni fa è da attribuirsi a (o comunque ha tra le sue concause) l’impatto con un meteorite il cui cratere è stato in seguito trovato al largo della penisola dello Yucatan. Gli studi della Premoli, di natura micropaleontologica, hanno individuato ulteriori prove di quanto accaduto nelle comunità di foraminiferi planctonici osservate nelle rocce della sezione: laddove gli ultimi strati del Cretaceo di calcare biancastro contengono associazioni ricche ed eterogenee, lo strato ricco di iridio è del tutto disabitato, mentre i successivi strati di calcare rossastro dell’inizio del Paleocene sono popolati solo da forme piccole e poco diversificate ascrivibili a una sola specie, Globigerina eugubina, così chiamata proprio perché scoperta in quelle rocce vicine a Gubbio.

Qui mi permetto di accantonare per un attimo il distacco del cronista per dire quanto mi abbia impressionato osservare dal vivo un sito così iconico non solo per la sua importanza scientifica e storica, ma anche perché mostra materialmente la fine di un’era e l’inizio di un’altra, con quel livello spesso una spanna stretto fra gli ultimi strati del Cretaceo e i primi del Paleocene che rappresenta un lasso di tempo in cui l’intero pianeta è stato sconvolto; è come leggere un libro in cui è narrata la quiete prima della tempesta, seguita da un breve quanto apocalittico capitolo, e poi la cronaca del nuovo mondo dopo il cataclisma. A onore del vero credo che il mio sia stato un sentimento comune, almeno a giudicare da quanti, indipendentemente dall’età e dalla posizione accademica occupata, si sono fatti fotografare accanto al leggendario livello.

Il secondo giorno di congresso è stato interamente dedicato all’escursione sul terreno, nel corso del quale sono state toccate varie località dell’Umbria di interesse paleontologico. La prima in ordine di tempo è stata la Foresta Fossile di Dunarobba, situata nei pressi di Avigliano Umbro.

Tronco fossile di Dunarobba - Foto di Daniele Tona
Tronco fossile di Dunarobba – Foto di Daniele Tona

Questo sito è caratterizzato dalla presenza di resti di una cinquantina di tronchi fossili rinvenuti in molti casi ancora in posizione di vita; la peculiarità è che, pur avendo 2,5 milioni di anni di età, il loro legno si è perfettamente conservato grazie all’argilla che li ha rapidamente seppelliti in una condizione descrivibile al meglio come una mummificazione, preservandoli dall’aggressione di microbi e batteri e dalla furia degli elementi. La Foresta Fossile è compresa nell’unità denominata pliocenica del Fosso Bianco, che consiste in sedimenti prevalentemente argillosi di ambienti lacustri poco o relativamente profondi del cosiddetto Bacino Tiberino, oggi corrispondente alla media valle del Tevere. La Foresta Fossile sorgeva presso una palude lungo il margine di questo bacino, nella quale si depositavano sedimenti pelitici il cui accumulo lento ma costante unito a una rapida subsidenza ha sepolto rapidamente i tronchi in un involucro di argilla isolante prima della loro decomposizione. Dall’analisi del contenuto paleobotanico (fruttificazioni e pollini) dei sedimenti circostanti si ipotizza che i tronchi appartengano a delle Taxodiaceae, sebbene un’identificazione più precisa non sia possibile poiché è molto difficile associare fra loro resti vegetali diversi come elementi lignei e polline; l’associazione botanica suggerisce inoltre che la Foresta Fossile sia cresciuta in una fase del Pliocene con un clima più caldo rispetto all’attuale. I tronchi fossili sono noti fin dal 1600, e nel corso del XX secolo sono stati esumati in seguito alle operazioni di estrazione dapprima della lignite e poi dell’argilla. Oggi gran parte degli esemplari è esposta e visibile, protetta dalle intemperie da delle tettoie, anche se attorno ad alcuni tronchi è stata costruita una struttura chiusa a temperatura e umidità controllate allo scopo di preservarli al meglio. Il loro disseppellimento li ha infatti privati dell’ambiente confinato che li ha protetti così a lungo, e nel trovarsi esposti all’azione degli agenti atmosferici molti di essi sono andati incontro a fenomeni di alterazione che li stanno letteralmente disgregando.

Da Dunarobba l’escursione è poi proseguita toccando una serie di località presso le quali sono visibili i depositi marini plio-pleistocenici che si sono accumulati nel Bacino della Valdichiana, più a ovest rispetto al Bacino Tiberino. I vari stop hanno riguardato sezioni formatesi in vari contesti del bacino, da quello costiero a quelli più distali e profondi, in un lasso di tempo compreso tra la fine del Pliocene (Gelasiano) e il Pleistocene Inferiore (Santeriano).

Presso Scoppieto affiora un deposito di clasti di dimensioni variabili dai ciottoli di alcuni centimetri fino anche a blocchi metrici, prodotti dall’azione combinata del moto ondoso e dal crollo di porzioni della falesia stessa. Gran parte dei clasti è intaccata dall’azione di organismi come i bivalvi litodomi (genere Lithophaga), che si insediavano all’interno dei ciottoli corrodendoli e formando le peculiari cavità a forma di goccia, o i poriferi; oltre ad essi v’erano anche organismi incrostanti come ostreidi e balanidi.

Lo stop successivo è stato alla cava di S. Lazzaro in località Ficulle. Si tratta di una vecchia cava ormai dismessa in cui è visibile una successione di sabbie fini limoso-argillose depositatesi in ambiente tranquillo e poco interessato dall’azione del moto ondoso. Ciò ha permesso l’accumulo e la conservazione di grandi quantità di fossili; il colpo d’occhio giungendo sul sito è davvero impressionante, con il sedimento marrone e beige punteggiato da una miriade di frammenti bianchi, che se osservati attentamente si rivelano essere tutti fossili, da frammenti di pochi millimetri fino a conchiglie grandi come piattini da caffè, appartenuti soprattutto a bivalvi e gasteropodi qui rappresentati da almeno una cinquantina di specie diverse.

Fossili della cava di San Lazzaro - Foto di Daniele Tona
Fossili della cava di San Lazzaro – Foto di Daniele Tona

In seguito l’escursione ha fatto tappa a Città della Pieve, presso la quale è visibile una successione di ambiente deltizio, più precisamente la parte più distale del fronte del delta. La sezione mostra strutture sedimentarie attribuibili a dune sabbiose sottomarine, la cui base è marcata da shell beds contenenti quasi esclusivamente Flabellipecten flabelliformis; sono anche stati rilevati segni di bioturbazione ascritti agli icnogeneri Thalassinoides e Ophiomorpha.

Shell beds di Città della Pieve - Foto di Daniele Tona
Shell beds di Città della Pieve – Foto di Daniele Tona

L’ultima tappa dell’escursione ha avuto luogo presso il Museo Paleontologico recentemente allestito a Pietrafitta. Questa struttura ospita una vasta collezione di resti rinvenuti durante le operazioni di estrazione della lignite nell’area circostante il paese; il contributo maggiore nell’assemblaggio di tale collezione si deve a Luigi Boldrini, che per più di vent’anni ha raccolto i fossili che venivano riportati alla luce e a cui il museo è doverosamente intitolato. La collezione del museo di Pietrafitta rappresenta un’importante associazione fossile del Pleistocene Inferiore, in particolare dell’ultima parte dell’età a mammiferi denominata Villafranchiano, e più precisamente appartiene all’unità faunistica di Farneta databile a circa 1,5 milioni di anni fa. I depositi di lignite nei quali sono state trovate le ossa fanno parte della successione sedimentaria del Bacino di Tavernelle, e nella fattispecie i livelli fossiliferi fanno capo al subsintema (sottounità del sintema, unità di base del sistema a limiti inconformi) di Pietrafitta, che rappresenta un’area paludosa interessata da elevata produzione di materia organica, probabilmente ubicata in prossimità di un bacino lacustre a sedimentazione fine che in occasione di eventi eccezionali trasportava il sedimento argilloso verso la palude, formando i livelli a invertebrati d’acqua dolce che intercalano le ligniti. Queste ultime sono state formate soprattutto dall’accumulo di piante erbacee, ma non mancano alcuni tronchi anche piuttosto grandi, uno dei quali si trova proprio all’ingresso del museo. La collezione del museo è esposta in una grande sala circolare dove, dopo alcuni pannelli sull’inquadramento storico e geologico del sito, una serie di vetrine ospita i resti fossili organizzati per gruppo tassonomico: vi sono resti frammentari di pesci, varie ossa di anfibi (tra cui l’ultima presenza nota del genere Latonia), rettili (con vipere e la testuggine palustre Emys orbicularis) e uccelli (varie forme acquatiche o legate ad ambienti prossimi all’acqua, più una terricola comparabile a Gallus). I mammiferi sono rappresentati da vari roditori tra cui il castoro Castor fiber plicidens, dal primate Macaca florentina-sylvanus, da una delle ultime segnalazioni di Ursus etruscus e dal mustelide Pannonictis nestii. I grandi erbivori annoverano il rinoceronte di piccola taglia Stephanorhinus con una specie affine a S. hundsheimensis, il bovide Leptobos (che in virtù della morfoglogia delle corna è stato avvicinato a L. vallisarni) e due cervidi, il più piccolo Pseudodama farnetensis e l’assai più grande Praemegaceros obscurus. I fossili più spettacolari appartengono però al proboscidato Mammuthus meridionalis, del quale sono esposti alcuni esemplari al centro della sala; questi non sono stati montati, ma sono ancora conservati nella stessa condizione del loro ritrovamento sorretti dalle cosiddette “culle” in cemento, che altro non sono se non il rivestimento protettivo in cui sono stati avvolti per l’estrazione; ciò che si vede è quindi il lato inferiore del blocco opportunamente preparato per mostrare le ossa. Allo stesso modo è esposto uno dei due scheletri di rinoceronte (l’altro è invece montato) conservati nella saletta laterale dove i partecipanti al congresso hanno assistito a una breve performance canora di un coro femminile, a seguito della quale si è tenuta la cena sociale che ha concluso degnamente la seconda giornata.

Rinoceronte al museo di Pietrafitta - Foto di Daniele Tona
Rinoceronte al museo di Pietrafitta – Foto di Daniele Tona

La terza e ultima giornata di congresso è stata interamente dedicata alle comunicazioni orali, tenutesi pure in questo caso al Museo Archeologico di Perugia. Anche in questa serie di sessioni sono stati toccati numerosi argomenti, fra cui conodonti ordoviciani, nannofossili calcarei e pesci del Cretaceo, gasteropodi e coralli dell’Eocene e, per arrivare in tempi più recenti, macromammiferi del Messiniano ed elefanti del Pleistocene.

Nella seconda sessione mattutina è stato dato ampio spazio agli organismi bentonici, con comunicazioni inerenti i rodoliti algali miocenici, i banchi a nummuliti e le comunità associate ai coralli di mare profondo dello Ionio; sono poi stati presentati ben due lavori sugli organismi planctonici calcarei e studi più vari sull’ambra dei Calcari Grigi, sul record fossile dei varani italiani e sugli ostracodi del lago albanese di Scutari.

La terza e ultima sessione, tenutasi dopo pranzo, si è focalizzata sui vertebrati. A parte una comunicazione di argomento paleobotanico sulle macrofite del lago di Pietrafitta, le altre hanno riguardato anfibi (Rana temporaria) e mammiferi (i lupi della Grotta Romanelli, i proboscidati dell’Eritrea e il canide Cuon dall’Italia meridionale), o più in generale associazioni fossili (Coste San Giacomo e Vallone Inferno), e anche una presentazione della collezione di mammiferi fossili conservati all’Università di Messina.

Nella seconda parte del pomeriggio si è tenuto il consiglio della Società Paleontologica Italiana, in cui si è discusso delle iniziative future e più in generale del futuro della società e della paleontologia in Italia. Non starò a tediare con i dettagli chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto, mi limito solo a menzionare l’annuncio della sede in cui si terrà l’edizione 2014, che sarà a Bari.

Giunto al momento di tirare le somme posso dire con grande piacere che anche l’edizione 2013 delle Giornate di Paleontologia è stata un’esperienza molto positiva, al pari con le precedenti. Dopo aver partecipato per tre anni al congresso non posso che rimarcare il valore di questo evento annuale che permette ai paleontologi di tutta Italia di riunirsi per scambiarsi pareri, opinioni e conoscenze (e anche per ritrovarsi tra amici, perché no), oltre che per recarsi in siti che altrimenti, per un motivo o per l’altro, non si avrebbe l’opportunità di visitare in altre occasioni.

In aggiunta a ciò, è doveroso evidenziare come, anno dopo anno, la presenza e la partecipazione dei giovani (ricercatori, studenti, dottorandi o anche semplici appassionati) sia stata sempre più importante. Posso personalmente testimoniare come il numero dei giovani presenti alle Giornate SPI sia stato sempre più grande, da meno di un terzo dei partecipanti nel 2011, a metà dei presenti l’anno scorso, fino a quest’anno dove erano praticamente la maggioranza. E il contributo della nuova generazione di paleontologi si è fatto sentire anche a livello organizzativo, visto che col rinnovo dei membri del corpo gestionale della SPI avvenuto nelle due ultime edizioni si è assistito a un netto ricambio generazionale all’interno del consiglio.

Questo supera persino quanto auspicai a suo tempo a proposito dell’edizione 2012, perché conferma

che lo studio della paleontologia è più vivo che mai nel nostro paese. Vedere come ogni anno sempre più giovani partecipino a eventi come le giornate SPI dovrebbe essere uno sprone alle istituzioni affinché investano di più nella ricerca, e consentano a tutti coloro che coltivano la passione per lo studio della paleontologia di poter dare il loro contributo. Purtroppo i tempi difficili in cui viviamo non permettono di investire quanto si dovrebbe, ma bisognerebbe avere una visione più ampia delle cose, e guardare al futuro per mantenere viva una scienza così affascinante.

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