Borealopelta, ovvero come la natura non smette mai di sorprendere

Daniele Tona – 11 settembre 2017

Leggi solamente sul sito originale www.scienzafacile.it-

A dispetto di quello che l’iconografia cinematografica può indurre a pensare, normalmente i resti fossili che i paleontologi estraggono dalle rocce sono ben lontani dal fornire un’idea chiara e immediata dell’aspetto dell’organismo al quale appartengono; la norma è rinvenire resti parziali, disarticolati, frammentati o soltanto singoli elementi di scheletri interni o esterni assai più complessi. Un esemplare pressoché intero (diciamo sopra il 90% di completezza), magari anche articolato, che rispecchi fedelmente l’anatomia in vita è un ritrovamento molto più che raro, forse praticamente unico. “Ci vuole un gran feeling”, disse una volta a lezione il mio professore di paleontologia dei vertebrati mimando enfaticamente il gesto che rappresenta la parte del corpo umano tipicamente associata alle clamorose botte di fortuna.

Eppure, alle volte, la natura è capace di superare la più vivida immaginazione, e ci regala fossili talmente completi e ben conservati da pensare che siano troppo belli per esser veri: Archaeopteryx, con le sue piume impresse sul calcare litografico che hanno dimostrato che le idee di Darwin non erano eresie senza capo né coda; Scipionyx, che pur non avendo conservato la copertura esterna di piume (perché possiamo dare praticamente per scontato che la bestiola in questione fosse piumata) ci ha dato un’immagine di come dovessero essere le interiora di un dinosauro; la ricca fauna di Messel, che ha preservato i peli, le squame e le piume degli animali come se fossero stati sepolti da pochi giorni anziché da cinquanta milioni di anni. La lista potrebbe andare avanti per un po’, in ogni modo tutti questi esempi, per eccezionali che siano dal punto di vista della conservazione, sono comunque stati vittima di processi che in qualche maniera li hanno modificati schiacciandoli, asportando delle parti o disarticolandole, più in generale alterandoli quel tanto che basta da non poter più rendere adeguatamente l’aspetto di quell’organismo vivo, vegeto e in tre dimensioni.

Ecco dunque che la natura parte in contropiede e fa saltar fuori qualcosa che riesce a ovviare agli inconvenienti che affliggono i pur spettacolari fossili testé citati. Si tratta del fossile di un dinosauro del gruppo degli anchilosauri, ossia quei dinosauri erbivori che hanno portato all’estremo il concetto di protezione sviluppando una vera e propria armatura di piastre ossee che ricopriva il dorso, la coda e la testa, spesso corredata di lunghi spuntoni e, nel caso della famiglia Ankylosauridae, anche di una mazza all’estremità della coda composta da placche spesse e robuste che potevano facilmente spezzare le gambe a qualunque predatore in cerca di guai.

L’incredibile fossile di Borealopelta e la (molto) probabile ricostruzione del suo aspetto. La scale bar è 10 cm. Image credit: Royal Tyrrell Museum

L’esemplare in questione è incompleto, poiché privo della coda, delle zampe posteriori e di parte della regione del bacino. Detto così non sembrerebbe all’altezza degli illustri esempi citati qualche riga più su, ma ciò che lo rende davvero straordinario è il modo con cui si è conservata la parte di corpo rinvenuta: i singoli elementi che componevano l’armatura di questo dinosauro hanno infatti mantenuto la stessa posizione che avevano quando l’animale era vivo, senza subire disarticolazione, trasporto o frantumazione, e il fossile non è stato neppure appiattito dal peso dei sedimenti soprastanti. In altre parole, significa che la parte di corpo preservata è una riproduzione pressoché perfetta del dinosauro quando è morto, e se noi tornassimo indietro nel tempo fino a poco prima che morisse esso avrebbe avuto lo stesso aspetto (in termini di conformazione della testa, disposizione delle piastre ossee, proporzioni corporee e quant’altro) immortalato nella roccia dai processi di fossilizzazione. Sembra una banalità, ma molte volte la frammentarietà dei resti fossili costringe ad accontentarsi di mere ipotesi quando si tratta di ricostruire le fattezze di un organismo estinto, e tali ipotesi sono tanto più speculative quanto più scarsi sono i resti a disposizione dei paleontologi. Basta pensare a Deinocheirus: fino a quando erano note solo le braccia l’unica cosa certa era la famiglia a cui apparteneva; quando poi è saltato fuori il resto dello scheletro si è capito che la sua anatomia era molto più bizzarra di quanto gli studiosi avessero potuto immaginare. Leggi tutto “Borealopelta, ovvero come la natura non smette mai di sorprendere”

Bolca e i suoi pesci fossili

Daniele Tona – 3 agosto 2016

Leggi solamente sul sito originale www.scienzafacile.it

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 L’ispirazione per questo articolo risale a qualche mese fa, quando il mio amico Giuseppe Marramà ha discusso all’Università di Torino la sua tesi di dottorato sullo studio dei pesci fossili di Bolca, uno dei siti paleontologici più famosi e importanti al mondo per la quantità e qualità dei resti rinvenuti. Il lavoro che ha presentato è stato un po’ diverso da quelli che in precedenza hanno indagato questo sito, e sebbene la località sia nota da secoli i risultati della ricerca sono stati per certi versi sorprendenti. Ciò mi ha dato lo spunto per parlare un po’ di Bolca e dei suoi spettacolari fossili, che io stesso ho avuto il piacere di vedere nell’ormai lontano 2009 con il professor Tintori e gli amici del corso di Paleontologia dei Vertebrati.

Come detto, il sito eocenico di Bolca è uno dei più noti ed importanti grazie all’abbondanza e alla qualità di conservazione dei fossili rinvenuti nei suoi strati. I resti più famosi e studiati di Bolca sono senza dubbio i pesci, che rappresentano una delle ittiofaune fossili meglio conosciute al mondo nonché la più diversificata tra quelle risalenti al Cenozoico; accanto ad essi i calcari hanno inoltre restituito anche una gran quantità di fossili di foraminiferi, molluschi, insetti, crostacei e anche di piante che hanno fornito ai paleontologi un quadro molto dettagliato di quell’ecosistema di 50 milioni di anni fa.

Alcuni esempi dei pesci fossili straordinariamente conservati provenienti da Bolca

Una conoscenza così approfondita del sito di Bolca deriva anche dai vari secoli di studi alle nostre spalle. L’esistenza di “pesci pietrificati” nei calcari di Bolca viene menzionata per la prima volta dal botanico Pietro Andrea Mattioli nella terza edizione della sua opera Dioscorides De Materia Medicinale del 1550, in cui esaminò esemplari appartenuti alla collezione di Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore dell’imperatore Carlo V presso la Repubblica di Venezia.

In seguito vari altri studiosi si sono interessati ai pesci di Bolca, così come molti nobili che li acquisivano per le loro collezioni; alcune di esse confluirono a metà del Settecento in quella del conte Giovanni Battista Gazola, che arrivò a contare più di un migliaio di esemplari. La collezione di Gazola fu studiata da Giovanni Serafino Volta (fratello del ben più noto Alessandro inventore della pila), che dopo aver pubblicato un breve catalogo della collezione di Vincenzo Bozza nel 1789 in cui assegnò gran parte dei pesci fossili a specie attuali di mare tropicale redasse un esaustivo inventario dell’ittiofauna di Bolca dal titolo Ittiolitologia Veronese del Museo Bozziano ora annesso a quello del conte Giovambattista Gazola e di altri gabinetti fossili Veronesi; pubblicato nel 1796, viene considerato il primo trattato di paleoittiologia e include la descrizione di più di 120 specie.

Nel 1797 l’armata di Napoleone che occupò Verona confiscò più di 600 pezzi della collezione di Gazola, che furono portati a Parigi dove furono presi in custodia dal Muséum National d’Histoire Naturelle; qui vennero esaminati dal naturalista svizzero Louis Agassiz, uno dei padri della zoologia comparativa, che pubblicò i risultati dei suoi studi nella monumentale opera Recherches sur les Poissons Fossiles tra il 1833 e il 1844.

Nei decenni a seguire le ricerche su questa straordinaria fauna sono proseguite ad opera di vari autori; negli anni più recenti sono state condotte da Jacques Blot del Museo di Parigi, Lorenzo Sorbini di quello di Verona e dai gruppi di lavoro di Alexander Bannikov, James Tyler, Roberto Zorzin e Giorgio Carnevale.

Volendo tratteggiare più nel dettaglio il contesto geologico, l’area fossilifera di Bolca è situata nella zona orientale dei Monti Lessini, circa 2 km a nordest del paese in provincia di Verona. I due siti principali sono la cosiddetta Pesciara e il Monte Postale; essi distano solo poche centinaia di metri l’uno dall’altro, ma sebbene siano entrambi formati da calcari micritici finemente laminati e ricchi di fossili, i dati sedimentologici, stratigrafici e paleontologici ci dicono che questi due siti hanno età e contesti deposizionali distinti; oltretutto le rocce vulcaniche e vulcanoclastiche che circondano i due corpi sedimentari rendono difficile stabilire i reciproci rapporti stratigrafici e quindi la ricostruzione dell’evoluzione della successione nello spazio e nel tempo.

La successione della Pesciara consiste di una serie di strati spessa una ventina di metri e data da calcari micritici a laminazione fine, contenenti resti ben preservati di pesci, piante e invertebrati, che si alternano ciclicamente a biocalcareniti e biocalciruditi, ossia rocce calcaree più grossolane i cui granuli sono principalmente frammenti di parti dure di organismi bentonici. Sulla base dei foraminiferi bentonici presenti la successione della Pesciara è stata attribuita, a seconda del criterio di zonazione biostratigrafica, alla Zona ad Alveolina dainelli o alla Biozona SBZ 11; esse corrispondono al Cuisiano Superiore, una sottodivisione dell’Ypresiano databile a poco meno di 50 milioni di anni fa, ossia all’inizio dell’Eocene. L’unità litostratigrafica di appartenenza sono i cosiddetti “Calcari Nummulitici”, un’unità informale che affiora nell’Italia nordorientale.

La successione del Monte Postale comprende la Formazione della Scaglia Rossa risalente al Cretaceo insieme ovviamente a calcari datati all’Ypresiano che si pensa possano arrivare fino all’appena più recente Luteziano, sebbene studi stratigrafici più precisi non siano ancora stati effettuati soprattutto per la parte più sommitale da cui provengono gli esemplari delle campagne di scavo più recenti. Dal punto di vista litologico si tratta anche qui di calcari micritici a granulometria e laminazione fini, anche se l’osservazione di tracce di biocostruzioni a coralli, le caratteristiche di preservazione dei fossili e la diversa composizione tassonomica denotano un ambiente abbastanza diverso da quello della Pesciara.

Nel corso degli ultimi quattro secoli sono stati recuperati più di 100.000 esemplari di pesci dalle rocce dell’area di Bolca, per i quali sono state erette più di 230 specie ripartite in almeno 190 generi. Eppure, fino ad oggi non erano mai stati intrapresi degli studi paleoambientali e paleoecologici di questi due siti che chiarissero in dettaglio la struttura delle comunità ittiche e gli aspetti tafonomici (cioè relativi ai processi che hanno portato dal pesce morto al fossile). Il gruppo di lavoro dell’Università di Torino ha deciso di farsi carico di questa impresa, pubblicando una serie di ricerche che hanno fatto luce sugli aspetti ecologici di questo Fossil-Lagerstätte. Qui ovviamente ne faremo solo un rapido excursus, perché si tratta di una mole di lavoro tanto voluminosa quanto esaustiva, ma è opportuno sottolineare la sua importanza per essersi focalizzati su aspetti fino ad ora trascurati da studi precedenti soffermatisi maggiormente sulla sistematica dei pesci fossili rinvenuti. Per i dettagli di questo studio il lavoro di riferimento è Marramà et al. (2016).

Allo scopo di espandere la conoscenza del contesto paleoecologico e paleoambientale di Bolca sono state svolte analisi quantitative sui pesci fossili recuperati nel corso di scavi sistematici condotti nella Pesciara e sul Monte Postale tra il 1999 e il 2011. E’ stata misurata la lunghezza standard dei 1158 ittioliti raccolti insieme a dati sulla loro abbondanza, e sono state esaminate le condizioni di preservazione per stabilire i processi tafonomici occorsi nei due siti; per far ciò sono stati presi in considerazione vari parametri:

  • Il grado di completezza degli scheletri, che va da esemplari del tutto articolati con ossa e scaglie in perfetta connessione anatomica a esemplari disgregati con un profilo del corpo indefinito ed elementi scheletrici disarticolati, sparpagliati o assenti.

  • L’orientazione nelle tre dimensioni, definita come la disposizione dell’esemplare rispetto alla superficie di strato, cioè se l’esemplare giace parallelo a quest’ultimo oppure è in qualche maniera ritorto e quindi mostra il lato dorsale o ventrale del corpo.

  • La tetania, cioè la contrazione post-mortem dei muscoli, che porta la carcassa del pesce a spalancare la bocca, a incurvare la colonna vertebrale e a dispiegare a ventaglio le pinne.

Da queste analisi risulta che i due siti conservano associazioni fossili diverse fra loro e hanno differenti contesti deposizionali.

Nella Pesciara i pesci rappresentano il 55% dei fossili raccolti; la restante percentuale è data da un 38% di resti vegetali (soprattutto Delesserites e Halochloris, più alcune angiosperme dicotiledoni), un 6% dato da invertebrati (crostacei, molluschi e insetti) e infine il rimanente 1% dai coproliti. Grazie all’elevata qualità di preservazione dei pesci della Pesciara è stata possibile l’identificazione degli esemplari fino al livello della specie, individuando almeno 40 specie ripartite in 27 famiglie e 9 ordini; il gruppo più abbondante è quello dei clupeidi, soprattutto grazie a Bolcaichthys che da solo costituisce il 60% degli esemplari, mentre il secondo gruppo più rappresentato sono i perciformi, in particolare apogonidi, menidi e sparidi, seguiti dagli olocentridi e da vari altri gruppi. Da questa composizione dell’ittiofauna è emersa una rete trofica in cui i taxa planktivori rappresentano la tipologia dominante; si osservano inoltre due classi di taglia particolarmente abbondanti: gli esemplari lunghi tra 20 e 30 mm, che riflettono l’abbondanza delle forme di piccola taglia come apogonidi e olocentridi, e quelli lunghi tra 50 e 70 mm, rappresentati principalmente dallo stadio adulto della sardina Bolcaichthyscatopygopterus, molto numerosa negli strati della Pesciara.

Sul Monte Postale le percentuali sono ben diverse: i pesci rappresentano circa un terzo degli esemplari mentre i fossili più comuni sono le piante, col 50% del totale dato da vari tipi di alghe e di piante terrestri; rispetto alla Pesciara sono inoltre assai più abbondanti i resti di invertebrati (15,6% del totale) e i coproliti (3,4%). La qualità di preservazione del sito è inferiore rispetto alla Pesciara, il che non permette di identificare facilmente gli esemplari a livello della specie e a volte anche del genere, e rende quindi difficile interpretare le relazioni tra i taxa dell’associazione; il numero di specie ittiche identificate sul Monte Postale è quindi un po’ più basso, con 34 taxa appartenenti a 25 famiglie e 8 ordini; il gruppo dominante è quello dei perciformi, che annovera forme di varie famiglie (scombridi, acropomatidi, menidi, labroidi e sparidi) e rappresenta il 60% dell’ittiofauna; un altro 30% è dato dai clupeidi, in particolare dall’aringa rotonda Trollichthys bolcensis che è la specie più comune; il terzo gruppo più abbondante sono gli elasmobranchi, in prevalenza squali i cui denti isolati rappresentano il 5%; seguono poi altri gruppi come anguilliformi, beloniformi, syngnathiformi e altri che complessivamente costituiscono il rimanente 7% dell’ittiofauna. La quasi totalità degli esemplari ha una lunghezza inferiore ai 180 mm, con i valori più frequenti compresi tra 10 e 30 mm per via dell’abbondanza di forma di piccole dimensioni, in particolare perciformi epibentonici e criptobentonici, e clupeidi.

La difficoltà nel definire le relazioni reciproche tra i due siti ha sempre reso problematica la ricostruzione paleoambientale dell’area durante l’epoca di deposizione dei calcari. Il modello tradizionale ipotizza un ambiente tropicale in cui i carbonati della Pesciara si sono depositati, a seconda degli autori, in una posizione che varia da una depressione costiera fortemente influenzata dal mare aperto a un bacino intrapiattaforma poco profondo più al largo; alcuni autori hanno proposto un sistema unico in cui Pesciara e Monte Postale sono sostanzialmente coeve e fanno parte di una laguna tropicale costiera ai cui margini sorgono un arcipelago vulcanico e le biocostruzioni carbonatiche delle quali si ha traccia al Monte Postale;

L’analisi tafonomica dei due siti conferma sostanzialmente i modelli già elaborati per la Pesciara, secondo i quali i suoi sedimenti si sarebbero depositati in un bacino intrapiattaforma in cui la preservazione in grande dettaglio è stata possibile grazie alle condizioni anossiche al fondo e allo sviluppo di biofilm. Per il Monte Postale, invece, l’abbondanza di piante sia marine che terrestri oltre che di invertebrati di vario tipo (tra cui spiccano senz’altro i coralli) fornirebbe indicazioni di un ambiente di deposizione prossimo alla costa in cui crescevano mangrovie, piante acquatiche e biocostruzioni coralline. Il fatto che gli scheletri dei pesci mostrino estesa disgregazione e dispersione degli elementi indica un alto livello di disturbo del fondale, che suggerisce che almeno periodicamente insorgessero condizioni aerobiche che consentivano l’insediamento di organismi che con la loro attività disturbavano il sedimento.

Abbiamo menzionato alcune specie di pesci particolarmente significative per via della loro abbondanza all’interno degli strati. Ebbene, alcune di esse sono state identificate proprio nel corso dello studio condotto dal gruppo di lavoro di Torino su circa 300 esemplari conservati in vari musei e istituzioni, e di recente sono state descritte.

I pesci recentemente descritti dai paleontologi di Torino: Bolcaichthys, Trollichthys ed Eoengraulis

Da questi studi è emerso che il 95% del materiale esaminato consiste di esemplari in vari stadi dello sviluppo di un unico taxon della famiglia Clupeidae. Il pesce in questione fu denominato Clupea catopygoptera da Agassiz nel 1835 che però non ne fornì una descrizione formale; questa fu poi redatta da Woodward nel 1901, assegnandolo al genere Clupea in cui all’epoca venivano inseriti praticamente tutti i clupeidi fossili e viventi; il lavoro di Grande del 1985 fornì evidenze sull’errata attribuzione di questa specie a Clupea, e sottolineò la necessità di revisionare il materiale relativo ai clupeoidi di Bolca. Trent’anni dopo la tanto richiesta revisione è arrivata, e ha stabilito l’appartenenza del materiale di Bolca a un nuovo genere della famiglia Clupeidae; il nuovo nome scelto per questo taxon è Bolcaichthys catopygopterus, dal significato tanto semplice quanto esplicativo di “pesce di Bolca”.

La descrizione dell’anatomia di Bolcaichthys, riportata in Marramà & Carnevale (2015b), è forse un po’ troppo tecnica per potervici soffermare in questa trattazione molto generale, ma per avere un’idea possiamo dire che era una sorta di sardina preistorica. Un aspetto importante di questo animale che vale però la pena di sottolineare è che si tratta non solo del clupeoide, ma anche del pesce più comune in assoluto della fauna di Bolca, e che grazie alla grande abbondanza di fossili si conosce in dettaglio la sua anatomia nelle varie fasi della crescita (larvale, giovanile e adulto). Parimenti importanti sono le informazioni che ci dà sul paleoambiente di Bolca, poiché questo pesce come altri clupeoidi doveva essere una forma tipicamente pelagica che nelle prime fasi della crescita era stanziata più vicino alla costa, e la presenza di grandi banchi è tanto indice del ruolo cardine che doveva avere nell’ecosistema quanto conferma dell’ipotesi secondo cui i calcari di Bolca si sono depositati in un bacino prossimo alla costa che però risentiva di una significativa influenza da parte degli ambienti di mare aperto.

I calcari di Bolca hanno restituito anche i fossili di un membro di un altro gruppo all’interno della famiglia Clupeidae: la sottofamiglia dei Dussumieriinae, tipica di acque marine costiere di clima tropicale e subtropicale. Anche in questo caso Agassiz assegnò un nome ai resti, che chiamò Clupea leptostea, cui seguì la descrizione formale da parte di Woodward; in seguito Grande ne evidenziò l’affinità coi Dussumieriinae, e dopo essere stato assegnato a vari generi da altrettanti autori il taxon ha finalmente ricevuto una chiara identità nel lavoro di Marramà & Carnevale (2015a), diventando Trollichthys bolcensis in riferimento sia all’artista americano Ray Troll – rinomato per le sue ricostruzioni di pesci fossili – sia alla località di Bolca.

Questo pesce presenta diversi tratti in comune con il genere attuale Spratelloides che vive nelle acque dell’Indo-pacifico; la combinazione dei caratteri anatomici di Trollichthys insieme alla loro preservazione non ottimale non permette tuttavia di assegnarlo con certezza a nessuna delle odierne linee filetiche all’interno dei Dussumieriinae, e quindi al momento non c’è modo di stabilire con quali taxa del gruppo sia più strettamente imparentato.

Un altro taxon significativo proveniente dalla Pesciara è stato descritto nel lavoro di Marramà & Carnevale del 2016. Appartiene alla famiglia degli Engraulidae, un peculiare gruppo di clupeoidi caratterizzato da una serie di caratteri derivati del muso, delle ossa infraorbitali e del sospensorio; e se questa descrizione non renda bene l’idea dell’identità del gruppo, basta dire che la nuova specie non è altro che un parente preistorico dei pesci volgarmente noti come acciughe. Eoengraulis fasoloi, questo il nome del nuovo taxon, è basato su un singolo scheletro ben conservato e articolato dal quale è stato possibile stabilire la combinazione esclusiva di caratteri che lo distingue; il nome del genere significa “acciuga dell’alba”, mentre quello della specie è un tributo al biologo Aldo Fasolo.

Dove si colloca Eoengraulis all’interno della famiglia delle acciughe? Gli Engraulidae vengono divisi in due sottofamiglie, la più primitiva Coiliinae e la più derivata Engraulinae; sulla base dei suoi caratteri Eoengraulis risulta essere il sister-taxon di tutti i taxa della sottofamiglia Engraulinae; ciò significa che dallo stesso antenato comune si è evoluto da una parte Eoengraulis e dall’altra il ramo al quale appartengono le acciughe più derivate.

Eoengraulis ha quindi una grande importanza nel delineare la storia degli Engraulidae. Prima che venisse scoperto le testimonianze fossili di questa famiglia erano molto scarse, in modo persino anomalo rispetto a quanto sono abbondanti oggigiorno, e provenivano solo da sedimenti del Neogene (il secondo periodo dell’era Cenozoica, comprensivo di Miocene e Pliocene), con un divario di almeno 25 milioni di anni tra Eoengraulis e le altre acciughe fossili. La sua età così antica indica che la radiazione del gruppo è avvenuta molto prima di quanto i fossili in nostro possesso facessero pensare in precedenza, avviandosi già durante l’Eocene.

Volendo chiudere questo post con una riflessione, possiamo senz’altro affermare che Bolca ha ancora molte cose da dire, e che un semplice cambio di approccio allo studio di materiale noto da decenni ha fornito una mole di informazioni inaspettata (invero talmente grande che in questo articolo già bello corposo ne ho menzionata solo una parte) e di grande interesse, oltre che la prospettiva di future scoperte.

Da un punto di vista più personale non posso che fare le mie più sentite congratulazioni all’amico Giuseppe (o meglio, al Dottor Marramà!) per il lavoro svolto. Come ho già detto in molte occasioni, se la paleontologia italiana è una scienza così attiva e vitale è proprio grazie all’impegno della nuova generazione di paleontologi che, a dispetto delle difficoltà in cui versa la ricerca nel nostro paese, continua imperterrita a svelare giorno dopo giorno i segreti del passato.

Un ringraziamento a Giuseppe Marramà per aver revisionato questo articolo e per avermi fornito le foto degli esemplari

Bibliografia

  • Agassiz L. (1833-1844). Recherches sur les Poissons fossiles. Petitpierre, Neuchâtel, 1420 pp.

  • Agassiz L. (1835). Revue critique des Poissons fossiles figurés dans l’Ittiolitologia Veronese. 44 pp. Petitpierre et Prince, Neuchâtel.

  • Grande L. (1985). Recent and fossil clupeomorph fishes with materials for revision of the subgroups of clupeoids. Bulletin of the American Museum of Natural History, 181: 231–372.

  • Marramà, G., Bannikov, A.F., Tyler, J.C., Zorzin, R. & Carnevale, G. (2016).Controlled excavations in the Pesciara and Monte Postale sites provide new insights about the paleoecology and taphonomy of the fish assemblages of the Eocene Bolca Konservat-Lagerstätte, Italy. Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 454: 228-245.

  • Marramà, G. & Carnevale, G. (2015a). Eocene round herring from Monte Bolca, Italy. Acta Palaeontologica Polonica 60 (3): 701–710.

  • Marramà G. & Carnevale G. (2015b): The Eocene sardine †Bolcaichthys catopygopterus (Woodward, 1901) from Monte Bolca, Italy: osteology, taxonomy and paleobiology. Journal of Vertebrate Paleontology. Published online, DOI: 10.1080/02724634.2015.1014490

  • Marramà G. & Carnevale G. (2016). An Eocene anchovy from Monte Bolca, Italy: The earliest known record for the family Engraulidae. Geological Magazine, 153 (1): 84–94.

  • Volta G. S. (1789). Degl’impietrimenti del territorio veronese ed in particolare dei pesci fossili del celebre monte Bolca per servire di continuazione all’argomento delle rivoluzioni terracquee. 24 pp., Verona.

  • Volta G. S. (1796). Ittiolitologia Veronese del Museo Bozziano ora annesso a quello del Conte Giovambattista Gazola e di altri gabinetti di fossili veronesi. 172 pp. Stamperia Giuliari, Verona.

  • Woodward A. S. (1901). Catalogue of Fossil Fishes in the British Museum (Natural History), 4: containing the Actinopterygian Teleostomi of the Suborders Isospondyli (in part), Ostariophysi, Apodes, Percesoces, Hemibranchii, Acanthopterygii and Anacanthini. Taylor and Francis, London, 636 pp.

La clonazione dei Dinosauri ora è possibile!!!

Stefano Rossignoli – 1 aprile 2015

E’ ormai qualche tempo che la notizia era nell’aria.

Grazie ai nostri contatti personali, abbiamo la possibilità di darvi in anteprima questa notizia che farà letteralmente impazzire gli appassionati, nonché di rendervi partecipi in prima persona!!!

Tyrannosaurus Rex e Dromeosaurus
Il piccolo Dromeosaurus dietro la zampa di Tyrannosaurus rex

Gli scienziati canadesi che si occupano di EVO-DEVO e della possibilità o meno di controllare l’espressione del DNA, quindi del genoma degli esseri viventi, si sono resi conto pochi mesi fa che avevano la soluzione sotto mano senza nemmeno saperlo.

Da qualche anno infatti cercano di ricostruire il DNA dei Dinosauri da quello dei loro parenti più prossimi e attuali, ovvero gli uccelli.

Non posso che rimandarvi alla lettura degli articoli di Daniele Tona che si occupano di raccontarvi questo importantissimo passaggio evolutivo avvenuto nel passato….

Se questo è ormai accettato dalla quasi totalità degli scienziati, è invece ancora troppo nuova la scoperta che vi racconto in questo breve post.

Dal DNA di uno dei loro oggetti di studio attuale, ovvero l’embrione di Numida meleagris Linnaeus, 1758 che appartiene al Taxon Aves, che tutti conosciamo meglio come “uccelli”, gli scienziati Canadesi, hanno scoperto un gene dormiente, battezzato per l’occasione T.rex-maniraptora.001.

Numida melegaris - da wikipedia
Numida melegaris – da wikipedia

Sono riusciti a farlo esprimere inducendo il fenomeno del CROSSING-OVER che sposta letteralmente una porzione di DNA in un altra zona del cromosoma più adatta alla “traduzione” del codice genetico di T.rex-maniraptora.001.

Successivamente, per micro-iniezione, è stata fornita artificialmente all’embrione una proteina che regola l’espressione dei geni dormienti.

Lo sviluppo embrionale è stato seguito nel dettaglio e, all’apparire di due artigli all’estremità delle ali e del quarto dito retrattile con un enorme artiglio sulle zampe posteriori, l’equipe di scienziati non ha avuto più il minimo dubbio che l’esperimento fosse riuscito!

Avevano realizzato il primo clone di un dinosauro, di specie ancora ignota che hanno battezzato amichevolmente Dino-doll.

Gli studi successivi sono avanzati velocemente e le potenzialità della scoperta è stata valutata attentamente.

Sulla falsa riga di un Famosissimo paleontologo che afferma:”Qual’è quel bambino che non vorrebbe un dinosauro tutto per se?“, l’equipe ha cercato di riprodurre in serie un kit per Leggi tutto “La clonazione dei Dinosauri ora è possibile!!!”

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We are in compliance with the requirements of COPPA (Childrens Online Privacy Protection Act), we do not collect any information from anyone under 13 years of age. Our website, products and services are all directed to people who are at least 13 years old or older.

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