Daniele Tona – 18 luglio 2017
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Anche quest’anno alla fine di maggio, più precisamente nei giorni 24, 25 e 26, la Società Paleontologica Italiana ha indetto il congresso annuale dei suoi soci. La sede del congresso di quest’anno è Anagni, città in provincia di Frosinone che, oltre alla sua importanza storica e artistica (ha dato i natali a ben quattro papi tra cui Bonifacio VIII, e il suo centro storico è uno dei migliori esempi dell’architettura e dell’arte medievale), si trova anche nelle vicinanze di numerosi siti di interesse paleontologico risalenti a varie epoche, e in virtù di ciò è la cornice ideale per il congresso organizzato quest’anno dal comitato capitanato dall’Università La Sapienza di Roma.
Com’è ormai tradizione annuale, se sono qui a parlarvene è perché ho avuto il piacere di partecipare alle Giornate di Paleontologia, anche se questa volta c’è mancato poco che dovessi dare forfait a causa degli impegni scolastici ma soprattutto della miopia di certe figure dell’amministrazione scolastica che non erano convinte della validità e dell’importanza di questo evento. Non voglio dilungarmi oltremodo sulla questione perché non è né il luogo né l’argomento, diciamo solo che per fortuna tutto si è risolto nel migliore dei modi e questo post ne è la dimostrazione. In ogni modo ci sarà modo di parlare in futuro del rapporto tra paleontologia e scuola italiana…
Il legame tra paleontologia e scuola è stato anche uno degli argomenti trattati durante la tavola rotonda di Palaeontologist in Progress tenutasi martedì 23 maggio. In questo devo ammettere di avere una certa misura di responsabilità poiché uno dei temi di discussione è stato proposto dal sottoscritto, partendo dai vergognosi errori riportati sul libro di scienze adottato dalla scuola dove ho insegnato per espandersi in una riflessione più ampia sul se e il come sia eventualmente possibile collaborare con le case editrici per revisionare i testi di modo che siano al passo con le scoperte più recenti, o quantomeno non raccontino autentiche castronerie ai ragazzi. Devo dire che mi ha fatto piacere vedere come un argomento che pensavo avrebbe lasciato il tempo che trova abbia invece dato il via a una lunga e stimolante discussione che si è poi sviluppata fino a toccare la questione, mai attuale come in questi ultimi tempi, del riconoscimento della figura del paleontologo da parte degli enti preposti alla gestione dei beni culturali, che in Italia annoverano anche i fossili.
Con la giornata di mercoledì 24 maggio ha avuto inizio il congresso vero e proprio nello spazio allestito nella Sala della Ragione all’interno del municipio di Anagni. Dopo i saluti delle autorità, comprensibilmente orgogliose che la loro città sia stata scelta come sede per riunire la comunità paleontologica italiana, sono cominciati ufficialmente i lavori con la comunicazione inaugurale a invito il cui relatore, Fabio Massimo Petti del Museo delle Scienze di Trento, ha parlato dei dinosauri del Lazio meridionale. Questo tema è strettamente legato al contesto dell’area di Anagni, poiché proprio in quest’area sono noti non solo alcuni siti a impronte (i cui ritrovamenti hanno fatto parte dell’escursione della seconda giornata di congresso, e non a caso questa comunicazione è stata una sorta di introduzione a quanto avremmo visto l’indomani), ma anche resti ossei di dinosauro di recente pubblicazione e di cui abbiamo già parlato alcuni mesi fa.
La comunicazione su invito è stata seguita da quelle presentate dai partecipanti al congresso. Come sempre per questioni di spazio posso solo limitarmi a una rapida carrellata dei lavori illustrati, ma una cosa che posso premettere fin da subito è che la mia predilezione per i rettili mesozoici è stata ampiamente soddisfatta dai numerosi lavori che li hanno riguardati.
Durante le due sessioni di comunicazioni, una al mattino e una nel primo pomeriggio, si è parlato di ammoniti (sia in termini di anatomia che di sistematica), vertebrati cenozoici (proboscidati, erinaceidi, cetacei) e mesozoici (un lavoro sugli ittiosauri del Cretaceo italiano), studi di micropaleontologia (nannofossili calcarei, acritarchi) e lavori a più ampio spettro di carattere paleoclimatico e paleoecologico.
Nella seconda sessione pomeridiana non sono state presentate comunicazioni orali ma si è tenuta la proiezione del documentario “Giallo Ocra – il mistero del fossile di Matera” scritto e diretto dal giornalista Renato Sartini. Il documentario parla del ritrovamento di uno scheletro di balenottera del Pleistocene nella zona di Matera, e in coda alla sua proiezione è seguito un dibattito al quale ha preso parte anche l’autore.
Nella giornata di giovedì 25 maggio si è tenuta l’escursione dei Paleodays 2017, focalizzata sull’area a sud est di Anagni e articolata in tre tappe. Come abbiamo detto l’area intorno ad Anagni è molto ricca dal punto di vista paleontologico grazie al gran numero di siti risalenti alla epoche più svariate, ad esempio quelli paleolitici di grande interesse per l’Istituto Italiano di Paleontologia Umana che dal 2011 ha la sua sede proprio ad Anagni, oppure i siti di Coste San Giacomo (Pleistocene Inferiore) e Fontana Ranuccio (Pleistocene Medio) che hanno restituito una ricca fauna a mammiferi e, nel caso di Fontana Ranuccio, anche manufatti umani.
Il primo stop dell’escursione ha però toccato livelli più antichi rispetto a quelli dei siti sopra citati, e più precisamente i calcari miocenici di Coreno Ausonio. Nell’area circostante questa città viene cavata una pietra ornamentale chiamata Perlato di Coreno, che prende il nome dall’effetto perlaceo dato alla roccia dalla presenza di litotamni, ossia resti di alghe rosse corallinacee.
Dal punto di vista geologico i calcari estratti appartengono alla Formazione dei Calcari a Briozoi e Litotamni che affiora nell’Appennino centrale e meridionale; questa unità rappresenta la porzione di età cenozoica della Piattaforma Laziale-Abruzzese e sovrasta in paraconcordanza dolomie e calcari bioclastici di età mesozoica (in altre parole la Formazione dei Calcari a Briozoi e Litotamni ha la stessa giacitura dei livelli mesozoici, ma è separata da essi da una superficie di discontinuità che rappresenta un lasso di tempo in cui non c’è stata deposizione, oppure i sedimenti si sono deposti ma sono stati erosi prima che la Formazione dei Calcari a Briozoi e Litotamni si depositasse a sua volta) per poi passare verso l’alto alla più recente Formazione delle Marne a Orbulina.
Il modello deposizionale della Formazione dei Calcari a Briozoi e Litotamni delinea una rampa carbonatica omoclinale, in pratica una grande piattaforma inclinata verso il mare aperto formata dal progressivo accumulo di sedimento carbonatico in acque subtropicali o tropicali; i produttori del sedimento carbonatico possono essere vari tipi di organismi a seconda della posizione lungo la rampa: nel caso dei sedimenti che formano i calcari della cava dove ci siamo fermati si tratta di alghe rosse corallinacee, che con i loro talli formano strutture incrostanti chiamate rodoliti attorno a frammenti di conchiglie, briozoi o gusci di foraminifero. I rodoliti possono raggiungere anche i 10-20 cm di diametro e sono i clasti più grandi all’interno di un sedimento comprendente anche una matrice fatta da bioclasti di vario tipo, talvolta bioerosi e bioturbati. L’associazione di organismi che ha prodotto questi bioclasti si trovava all’interno della zona oligofotica nella rampa intermedia, quindi a una profondità in cui la luce solare è sufficiente per vedere sott’acqua ma non abbastanza intensa da permettere la fotosintesi agli organismi autotrofi; in termini di profondità la zona oligofotica dipende da vari fattori tra cui la torbidità dell’acqua, ma in linea di massima si attesta non oltre i 200 metri.
Il secondo stop ha portato i congressisti a Esperia, città a una trentina di chilometri a sud di Frosinone nelle cui vicinanze sono state scoperte numerose orme di dinosauro. La scoperta risale al settembre del 2006 in una sezione di un paio di metri di spessore affiorante circa 3 km a ovest dell’abitato e interpretata come una successione di calcari di colore marrone chiaro con alternanza tra facies più grossolane e facies più fini; in base a quest’alternanza e alla dominanza della facies più grossolana si può collocare la successione in un punto della piattaforma carbonatica interessato dall’azione del moto ondoso e delle maree, che portavano via il sedimento più fine lasciando in posto quello di dimensioni uguali o maggiori alla sabbia; le orme di dinosauro sono impresse su uno dei livelli più grossolani, caratterizzato da strutture sedimentarie che evidenziano momenti di temporanea esposizione subaerea che ha permesso l’essiccamento dei sedimenti e quindi la conservazione delle impronte. Il contenuto in alghe dasicladacee, frammenti di rudiste e foraminiferi bentonici ha permesso di inquadrare l’età della successione all’Aptiano, verso la fine del Cretaceo Inferiore.
Le orme occupano una superficie di circa 40 metri quadrati di estensione e non mostrano orientazione preferenziale o allineamento a formare piste; la loro conservazione, inoltre, non è ottimale per via della diagenesi e della tettonica occorsa alla successione, per cui da un punto di vista icnotassonomico è possibile ipotizzare solo a grandi linee quale animale abbia lasciato le impronte. Un primo gruppo di impronte è dato da tre esemplari di tipo tridattilo, quindi orme di zampe a tre dita nelle quali si possono riconoscere i cuscinetti delle falangi e lievi segni degli artigli; il probabile trackmaker era un bipede di piccola taglia, probabilmente un teropode; quale tipo di teropode fosse non è dato a sapere, anche se le impronte di Esperia sono molto simili a quelle di Borgo Celano in Puglia che a loro volta presentano molte affinità nella forma e nelle proporzioni con gli ornitomimosauri. Il secondo, e nettamente più abbondante, tipo di impronte è dato da orme subcircolari o ellittiche, piuttosto mal conservate ma comunque in alcuni casi riconoscibili come coppie mano-piede dove la prima è decisamente più piccola rispetto al secondo. Lo stato di preservazione non offre caratteri diagnostici utili a una classificazione icnotassonomica precisa, ma la disposizione delle coppie mano-piede e la morfologia suggeriscono che il trackmaker fosse un sauropode di medie dimensioni.
Purtroppo non è stato possibile visitare il sito di Esperia direttamente sul terreno, tuttavia i congressisti sono stati accolti dal locale Museo del Carsismo allestito dal gruppo speleologico romano, che ha realizzato un’esposizione riguardante l’ambiente di grotta e ciò che riguarda la flora e la fauna che lo abitano. In aggiunta ad essa sono esposti vari altri reperti tra cui anche molti fossili e ovviamente una riproduzione delle impronte dell’icnosito.
In aggiunta ad essa è visibile anche un calco di una rappresentanza piccola ma molto significativa di un altro sito a impronte:si tratta di Sezze, risalente al Cenomaniano Inferiore dei Monti Lepini e caratterizzato non da uno ma da ben tre strati a impronte distinti che rappresentano altrettanti episodi di emersione della piattaforma carbonatica. Anche qui si osservano orme attribuite a sauropodi, più precisamente a dei titanosauri per via della distanza fra le impronte degli arti destri e sinistri dovuta alla marcata larghezza del tronco; questo carattere differenzia i titanosauri dagli altri gruppi di sauropodi, che hanno un torace più stretto. Le impronte esposte al museo appartengono invece a teropodi di piccola taglia come quelle di Esperia, ma nel caso di Sezze l’autore delle impronte è stato ascritto agli oviraptorosauri; una caratteristica interessante di alcune di queste impronte è che insieme alle tracce lasciate dalle tre dita del piede normalmente poggiate a terra compare anche il segno del metatarso che di solito era sollevato da terra; esso appare come un segno che si estende nella direzione opposta rispetto alle dita, e indica che in quel momento il dinosauro si era accucciato sulla superficie fangosa.
Al di là della loro importanza per il fatto di rappresentare istantanee di vita degli animali che le hanno impresse, fornendo quindi informazioni sulla loro vita che i soli resti ossei non sono in grado di dare, il ritrovamento di queste impronte di dinosauri ha significative implicazioni dal punto di vista paleobiogeografico: innanzitutto indicano la presenza di gruppi di dinosauri poco o per nulla rappresentati da resti scheletrici nel nostro continente qual è il caso degli ornitomimosauri e soprattutto degli oviraptorosauri; in secondo luogo il rinvenimento di un numero sempre più elevato di icnositi che testimoniano la presenza di dinosauri anche di grandi dimensioni offre sostegno al modello secondo cui le piattaforme carbonatiche del Cretaceo non erano isolate l’una dall’altra e distanti dal continente in maniera analoga alle odierne Bahamas, bensì erano strutture connesse fra loro che hanno subito vari eventi di emersione temporanea nel corso dei quali i dinosauri erano liberi di spostarsi da una piattaforma all’altra e quindi di andare dall’Africa all’Europa e viceversa. Attualmente l’ipotesi più avvalorata è che gli icnofossili (e i resti ossei trovati in altre località, come Scipionyx a Pietraroja o il teropode trovato presso Capaci) rappresentino vari eventi di migrazione occorsi durante le fasi di emersione delle piattaforme, anzichèuna situazione in cui le piattaforme sono rimaste emerse per un tempo più o meno lungo del quale i livelli a orme costituiscono vari “istanti” dal punto di vista geologico.
La meta del terzo stop dell’escursione è stata Pofi, paese a metà strada tra Anagni ed Esperia che è sede del Museo preistorico cittadino. Situato dal 2001 nelle sale del Centro Servizi Culturali della città, la fondazione del museo risale però agli anni Cinquanta quando lavori di scavo nei pressi di Pofi portarono alla luce i fossili di vari animali insieme a una gran quantità di strumenti litici; nel 1959, in seguito al ritrovamento di un’ulna umana e di fossili di varie specie di mammiferi nel sito di cava Pompi, la Sovrintendenza diede il nullaosta per la fondazione del museo di Pofi inizialmente situato nella Biblioteca comunale della città.
Il museo nella sua sede odierna pone grande enfasi all’evoluzione umana, destinando ampia parte dell’allestimento a calchi dei principali fossili africani ed eurasiatici e ai manufatti che testimoniano la storia evolutiva degli ominidi. Rilievo particolare è dato al cosiddetto uomo di Ceprano, scoperto nel 1994 all’interno di uno strato argilloso in località Campogrande che i dati ottenuti dalle analisi svolte, tra cui quelle stratigrafiche, sedimentologiche, geochimiche e paleomagnetiche, attribuiscono a un intervallo temporale compreso tra 430.000 e 385.000 anni fa. L’uomo di Ceprano è rappresentato solo da una calotta cranica, ma è di innegabile importanza poiché si tratta del più completo reperto umano del Pleistocene Medio rinvenuto in Italia. Essa è sufficientemente diagnostica da poter tratteggiarne il proprietario come un maschio di tarda età adulta, ma la precisa posizione sistematica è stata oggetto di dibattito per molto tempo; dai dati attualmente disponibili parrebbe riferibile una fase arcaica dell’evoluzione di Homo heidelbergensis, con maggiore affinità con i fossili umani coevi che provengono dall’Africa rispetto a quelli europei.
La collezione del museo comprende anche molti fossili appartenenti alle faune a vertebrati del Lazio meridionale associate ai resti umani. Degni di nota sono i resti dei proboscidati Mammuthusmeridionalis e Palaeoloxodonantiquus, dei quali sono esposti esemplari dei molari, delle lunghe zanne, del cranio e di varie altre parti dello scheletro; M. meridionalis è noto dal sito di Castro de’ Volsci, mentre dalla località Isoletta nel comune di Arce giungono le ossa di P. antiquus. Non manca un’ampia rappresentanza di invertebrati, in particolare bivalvi e gasteropodi, e vanno anche menzionati i calchi abbinati a molte vetrine, soprattutto di crani di ominidi, che possono essere presi in mano per osservare i reperti da varie angolazioni e apprezzare così le differenze di forme e proporzioni in un modo che sarebbe impossibile con il vetro della teca a frapporsi. E’ un modo a mio parere efficace di consentire ai visitatori di conoscere meglio questi importanti resti fossili non solo guardandoli ma anche toccandoli con mano.
La giornata di escursione si è conclusa con l’immancabile cena sociale, tenutasi quest’anno presso il Palazzo Bonifacio VIII dove, al termine del buffet, siamo anche stati graditi spettatori di un breve ma pregevole concerto di musica sinfonica.
Arriviamo così all’ultima giornata di lavori, venerdì 26 maggio, in cui si sono tenute altre tre sessioni di comunicazioni orali. Tra gli argomenti trattati, i rettili (anatomia del bacino dei mosasauroidi e implicazioni sulla sistematica, pitonomorfi del Cretaceo pugliese) i mammiferi (bradipi di terra, ungulati miocenici, associazioni faunistiche del Villafranchiano e del Miocene), i pesci (ittiofaune della Scaglia Rossa, torpediniformi dal Lagerstaette di Bolca), studi di stratigrafia (Pleistocene emiliano, sedimenti di mare profondo cenozoici) e di paleoecologia, micropaleontologia, associazioni a vertebrati, un importante ritrovamento di impronte umane a Laetoli e un occhio alle collezioni museali.
Come da prassi, in chiusura della giornata e per estensione del congresso ha avuto luogo l’assemblea dei soci della Società Paleontologica Italiana. Non starò a tediarvi con i dettagli, limitandomi a riportare quale sarà la sede delle Giornate di paleontologia del 2018: si terranno a Trento, più precisamente nelle sale del Museo delle Scienze.
Qualche considerazione finale? Non mi soffermo più di tanto su quello che ripeto ogni anno (sempre con grande piacere, sia chiaro) su quanto sia attiva la comunità paleontologica italiana soprattutto per quanto riguarda la componente più giovane che ormai costituisce la stragrande maggioranza dei partecipanti alle giornate di paleontologia. Non mi ci soffermo semplicemente per non essere ripetitivo, soprattutto per chi segue Scienza Facile da tempo e (spero) avrà già letto i miei resoconti delle precedenti edizioni. Vale piuttosto la pena di sottolineare, più che la vitalità in sé e per sé della paleontologia italiana, il fatto che sia così vitale in un contesto storico e culturale in cui è a malapena riconosciuta come disciplina da chi ha nelle proprie mani il patrimonio culturale del nostro paese. Vale per le istituzioni, che stentano a riconoscere ai fossili la stessa dignità dei reperti archeologici, e vale anche per il sistema educativo, al quale apparentemente basta scrivere quattro sciocchezze sui libri perché “tanto i ragazzini non sanno niente e non si accorgono se racconti loro delle frottole” (questa è l’impressione generale che mi danno gli editori di testi scolastici).
Alla luce di ciò il mio modesto messaggio è uno solo: di non mollare, di continuare a impegnarsi per far luce sul passato della nostra specie e del nostro pianeta, a prescindere dalle difficoltà che l’ignoranza e la burocrazia dilagante possono frapporre al cammino della scienza.