Il ritorno del brontosauro e altre novità dal mondo dei sauropodi

Daniele Tona – 17 ottobre 2016

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Quando si menziona la parola “dinosauro” la rappresentazione che l’immaginario popolare associa ad essa è quasi sempre una fra due opzioni: la prima è Tyrannosaurus rex, più o meno paleontologicamente accurato a seconda di quanto si è documentato colui che visualizza l’animale; la seconda è quella di un rettile immenso, con il corpo massiccio di un elefante sorretto da zampe colonnari, un collo di lunghezza impossibile sormontato da una testolina apparentemente troppo piccola per governare un corpo di siffatta mole, e infine una coda altrettanto se non più lunga che in base alla correttezza della raffigurazione può essere trascinata come un immane peso morto oppure sventolata come una smisurata frusta.

Quest’ultima rappresentazione descrive più o meno sommariamente la quasi totalità delle specie appartenenti a uno dei principali gruppi di dinosauri: parliamo ovviamente dei sauropodi, parenti stretti dei teropodi all’interno dei dinosauri saurischi che tuttavia non potrebbero essere più diversi dai loro cugini bipedi e (quasi tutti) carnivori.

Nel corso dell’era Mesozoica i sauropodi sono stati una componente significativa degli ecosistemi, diffondendosi in tutto il globo fino al loro apogeo alla fine del Giurassico; nel Cretaceo scomparvero in Asia e in Nordamerica, là dove furono soppiantati dagli ornitischi, ma nel resto del mondo rimasero i vegetariani più importanti sino alla fine del Mesozoico. Inoltre i sauropodi sono uno dei gruppi più longevi di dinosauri: le forme più antiche risalgono al Triassico Superiore, come Melanorosaurus del Norico, e se ci si allarga al più ampio gruppo dei sauropodomorfi – comprendente anche specie un tempo riunite nel gruppo a parte dei “prosauropodi” che oggi si pensa fossero una serie di forme di intermedie sulla strada verso i sauropodi in senso stretto – le loro radici affondano addirittura nel Carnico, circa 230 milioni di anni fa.

Eppure, benché i sauropodi siano stati studiati in dettaglio fin dagli albori della paleontologia dei dinosauri, ogni anno le nuove scoperte su questi animali non mancano, e talvolta giungono da luoghi e fonti impensate. In questo articolo vogliamo soffermarci in particolare su due di esse, entrambe molto recenti, che hanno riportato in vita animali considerati estinti da tempo immemore in modi diversi ma ugualmente sorprendenti.

 

Apatosaurus louisae al Carnegie Museum di Pittsburgh

La prima ricerca che andiamo a vedere, seppur solo brevemente poiché si tratta di un lavoro immenso, è il lavoro di Emanuel Tschopp, Octavio Máteus e Roger B.J. Benson del 2015, pubblicato su PeerJ. Lo menzionai già in passato su Scienza Facile, quando proprio Emanuel Tschopp lo illustrò ai Paleodays del 2015 a Palermo, promettendo di parlarne in seguito; purtroppo vari impegni ne hanno portato la disamina su questoblog alle proverbiali calende greche, ma ora possiamo finalmente vedere in cosa consiste questo studio che per mole è secondo solo agli animali che esamina.

 Tschopp e colleghi sono andati a indagare uno dei principali gruppi all’interno dei sauropodi, il clade Diplodocidae. Attualmente si riconoscono tra le 12 e le 15 specie di diplodocidi, tra le quali vi sono dinosauri famosi e iconici quali Apatosaurus e l’eponimo Diplodocus; la loro massima diversità fu raggiunta nel Giurassico Superiore quando erano presenti in Nordamerica, Tanzania, Zimbabwe, Portogallo, Spagna e forse anche in Inghilterra e Georgia, ma a differenza di altri gruppi di sauropodi i diplodocidi entrarono apparentemente in declino nel Cretaceo Inferiore, con Leinkupal dal Sudamerica come unico membro del gruppo databile al Cretaceo.

Lo scopo dello studio è di stabilire le relazioni filogenetiche, fino ad ora non del tutto chiarite, tra le varie specie di diplodocidi. Per farlo Tschopp e colleghi hanno esaminato e confrontato i caratteri degli esemplari conservati nei musei, prendendone in esame 81 che sono diventati ciò che in cladistica si definisce operational taxonomic unit o OTU: 49 di esse appartengono a Diplodocidae e comprendono tutti gli olotipi (cioè gli esemplari sui quali si basa la descrizione formale di una specie) sinora ascritti al gruppo oltre a vari esemplari ragionevolmente completi e articolati che hanno fornito ulteriori dati nel caso in cui gli olotipi fossero frammentari o mal conservati, specialmente a livello del cranio; in aggiunta ad essi sono stati esaminati dei taxa non inclusi nei diplodocidi come termini di confronto.

Per ciascuno di questi esemplari si è osservato quali fossero presenti tra i 477 caratteri delle varie parti dello scheletro presi in considerazione; tali caratteri sono stati misurati direttamente sui fossili stessi laddove possibile, altrimenti sono stati ricavati dalle descrizioni pubblicate in letteratura oppure da fotografie ad alta definizione. Partendo dai dati ottenuti dall’esame degli esemplari è stata quindi eseguita l’analisi filogenetica elaborando tali dati grazie ad un software apposito chiamato TNT. Non scendiamo nel dettaglio per spiegare tutto il processo perché non basterebbero venti pagine, ma basta sapere che, oltre ai dati ricavati dalla misurazione dei caratteri, si è tenuto conto di numerose variabili che hanno influito sulla morfologia degli elementi scheletrici esaminati, come ad esempio lo stadio di crescita dell’esemplare, la deformazione dei fossili o la presenza di tratti morfologici peculiari di un singolo esemplare.

L’elaborazione dei dati ha portato alla creazione di un grafico, detto cladogramma, che rappresenta le relazioni filogenetiche tra i vari taxa esaminati stabilite in base ai caratteri che essi hanno in comune fra loro. Il lavoro di Tschopp et al. ha prodotto quattro cladogrammi diversi a seconda del criterio di analisi dei caratteri; in linea generale, tuttavia, tutti e quattro non si discostano troppo dai modelli ipotizzati in lavori precedenti: ne risulta un clade chiamato Diplodocoidea comprendente i gruppi Rebbachisauridae e Flagellicaudata; questi ultimi sono distinti in Dicraeosauridae e Diplodocidae, i quali a loro volta si dividono in Apatosaurinae e Diplodocinae. A seconda del criterio adottato alcune specie si collocano in una posizione piuttosto che in un’altra, ma lo schema generale rimane sostanzialmente lo stesso.

Il risultato sul quale ci vogliamo soffermare, che è anche quello che ha generato il maggior clamore mediatico tra i non addetti ai lavori, si trova all’interno degli Apatosaurinae, dove i dati evidenziano due raggruppamenti di specie: da una parte abbiamo Apatosaurus ajax e Apatosaurus louisae che risultano più strettamente imparentati tra loro rispetto agli altri tre taxa, ossia Apatosaurus excelsus, Elosaurus parvus e Eobrontosaurus yahnahpin. Gli autori ritengono che questi tre taxa siano abbastanza distinti dalle altre due specie di Apatosaurus da non appartenere al medesimo genere, ma allo stesso tempo non sono abbastanza differenziati fra loro da giustificare tre nomi generici; hanno così deciso di riunirli sotto il medesimo nome generico, e siccome la priorità va a quello istituito per primo hanno “resuscitato” quello dato originariamente ad Apatosaurus excelsus: Brontosaurus.

Quanto proposto da questa ricerca aggiunge un altro tassello a una storia tassonomica già piuttosto intricata qual è quella del brontosauro. Tutto iniziò quando nel 1877 Othniel Charles Marsh descrisse i resti di un enorme animale portato alla luce da rocce della Morrison Formation a Como Bluff nel Wyoming, ai quali diede il nome Apatosaurus ajax. In seguito, nel 1879, Marsh descrisse un secondo scheletro di sauropode a cui assegnò il nome Brontosaurus excelsus. Nel 1903 Elmer Riggs riesaminò i due esemplari in questione e pubblicò una revisione dei rispettivi taxa in cui affermò che le differenze tra Apatosaurus e Brontosaurus erano insufficienti per distinguere i due generi; ne conseguì che, in base alle norme di nomenclatura, il nome corretto da attribuire alla specie excelsus era quello del genere descritto per primo, ossia Apatosaurus. Alle due specie già note A. ajax e A. louisae si aggiunse così Apatosaurus excelsus, che manteneva la sua validità come specie ma perdeva la sua “indipendenza”, per così dire, a livello di genere.

Da quel momento, per la letteratura scientifica il nome Brontosaurus perse di validità, e per oltre un secolo la sua specie fu considerata un’altra specie di apatosauro. Per la cultura popolare, però, il nome rimase valido eccome, e generazioni di paleontologi, esperti o semplici appassionati dovettero sobbarcarsi l’onere di correggere coloro che chiamavano “brontosauro” qualsivoglia generico dinosauro sauropode. A peggiorare le cose ci fu il fatto che lo scheletro dell’olotipo di brontosauro era privo di cranio, così quando fu esposto all’American Museum of Natural History di New York gli venne piazzato un cranio scolpito sulla base di quello di Camarasaurus, un altro sauropode più piccolo e solo lontanamente imparentato; questo cranio aveva una forma più tozza e alta rispetto a quello lungo e stretto che avevano le altre specie di Apatosaurus, il che non fece che aumentare ulteriormente la confusione tra i non addetti ai lavori; solo nel 1978 giunse la conferma che anche il cranio di A. excelsus era allungato, e a quel punto le ricostruzioni furono aggiornate in accordo.

Nel 2015 il cerchio si chiude: Tschopp e colleghi sostengono che alla fine fine A. excelsus è effettivamente abbastanza diverso dalle altre specie di Apatosaurus, e così torna ad essere Brontosaurus; dallo studio emerge anche che il brontosauro è leggermente più antico e compare un po’ più in basso nella stratigrafia della Formazione Morrison rispetto all’apatosauro, rinforzando ulteriormente l’interpretazione di Tschopp et al. – e prima ancora quella originaria di Marsh – dei due generi distinti fra loro. C’è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che per oltre un secolo i paleontologi hanno corretto chi usava il nome “brontosauro” solo per scoprire che alla fine non aveva poi così torto, e anche nel fatto che ciò in retrospettiva rende corretto l’uso di quel nome tutte le volte che un autore lo inseriva in un romanzo o in un film, oppure un produttore di giocattoli lo stampava sulla pancia di un modellino di dinosauro dal collo lungo infischiandosene di ogni velleità scientifica.

C’è anche una morale che possiamo trarre da questa vicenda, e che mi ha ispirato a scrivere queste poche righe su una piccola parte di un lavoro molto più ampio ed esaustivo: a prescindere dal nome generico, la specie excelsus è sempre stata valida, e nessuno lo ha mai messo in dubbio; il vero dibattito nasce dal genere al quale ascriverla, e a quel punto si passa dalla certezza dei fatti all’interpretazione dei dati da parte dei vari autori. La proposta di Tschopp et al. di rendere di nuovo valido il nome Brontosaurus è la loro interpretazione dei dati ottenuti studiando i fossili, e infatti non tutti i paleontologi sono concordi e preferiscono mantenere valido solo il nome Apatosaurus. Alla fine tale dibattito è solo una questione di quale etichetta appiccicare a una specie, ma la cosa davvero importante è che il loro studio fornisce dati sui quali chiunque può lavorare e produrre la propria versione dei fatti; la loro interpretazione è testabile ed eventualmente confutabile, e magari tra qualche anno nuove scoperte e nuovi studi la affosseranno e Brontosaurus tornerà nell’oblio dei nomi non più validi; i dati da loro forniti, però, danno a chi dissente da essa i mezzi per argomentare la propria opinione, e ciò rappresenta al meglio un’applicazione di ciò che dovrebbe essere il metodo scientifico.

 

Il secondo lavoro di cui andiamo a parlare è del gruppo di lavoro composto da Cristiano Dal Sasso, Gustavo Pierangelini, Federico Famiani, Andrea Cau e Umberto Nicosia; lo studio (Dal Sasso et al. 2016) è stato pubblicato su Cretaceous Research e, per riagganciarci a quanto detto in apertura, è sorprendente sia per la sua natura del fossile descritto sia per il luogo da cui è tornato alla luce.

Tutto inizia nel 2008, quando dei lavori di estrazione in località Rocca di Cave, in provincia di Roma, portarono alla luce rocce provenienti da un affioramento di calcari del Cretaceo; queste rocce contenevano dei fossili che nel 2012 sono stati portati all’attenzione di esperti che li hanno identificati come resti di un sauropode.

A sorprendere è in particolare la roccia che conteneva i resti: nell’area di Rocca di Cave, che si trova nella parte meridionale dei Monti Prenestini, affiorano infatti calcari marini databili all’Aptiano-Senoniano, quindi attorno a 100 milioni di anni fa a metà del periodo Cretaceo; questi calcari appartengono alla cosiddetta Piattaforma Carbonatica Appenninica o Piattaforma Laziale-Abruzzese-Campana, che si è depositata a partire dal Cretaceo fino al Miocene.

Molti degli affioramenti di età cretacea della suddetta piattaforma hanno un’estensione limitata e sono spesso fortemente disturbati dalla tettonica, e la sezione da cui provengono i fossili, posta dove anticamente si trovava il margine occidentale della piattaforma, non fa eccezione; si tratta di una successione sedimentaria spessa poco più di due metri data da calcari più grossolani cui si intercalano livelli più fini a ooliti, e dove si osservano accumuli localizzati di rudiste e milioline oltre a tracce di esposizione subaerea; questa successione rappresenterebbe una facies di laguna con depositi a grana fine ma ricchi in bioclasti ubicati in un contesto di piattaforma interna. Il calcare che ingloba i fossili di dinosauro si caratterizza per l’abbondanza di frammenti di bivalvi, gasteropodi, echinoidi e più rari brachiopodi e coralli, organizzati in livelli bioclastici con orientazione preferenziale dei frammenti; è stato attribuito alla cosiddetta unità dei “Calcari a ostracodi e gasteropodi”, datata tra la fine dell’Aptiano e l’inizio dell’Albiano (circa 113 milioni di anni fa). Abbiamo quindi i resti di un sauropode finiti in un’antica laguna ai margini di una piattaforma carbonatica parzialmente emersa, abbastanza estesa da permettere se non la sussistenza almeno il transito di animali di terraferma quali i dinosauri.

Il materiale rinvenuto consiste di tre elementi disarticolati tuttora conservati presso il Museo di Storia Naturale di Milano: si tratta di una vertebra e di due frammenti ossei, tutti immersi nella stessa matrice e quindi ragionevolmente appartenenti al medesimo animale. La vertebra è isolata e non mostra tracce di connessione con altre vertebre andate perdute; gli altri elementi si sono frammentati prima della diagenesi e indicano di aver subito trasporto su un substrato sciolto prima del seppellimento definitivo e della cementazione della matrice sedimentaria.

E’ soprattutto la vertebra a permettere l’identificazione dell’animale a cui è appartenuta: dall’esame dei suoi caratteri gli autori attribuiscono la vertebra a un sauropode del gruppo dei titanosauriformi, un gruppo di sauropodi di grande successo che annovera più di 90 specie distribuite su tutto il globo e vissute tra il Giurassico Medio e il Cretaceo Superiore. Ciò lo pone quindi sull’altro ramo dei sauropodi rispetto ai diplodocidi che abbiamo visto prima, più vicino a Brachiosaurus, Camarasaurus e soprattutto forme più derivate comeSaltasaurus. Alcuni caratteri in particolare, tra cui i processi trasversi e le superfici di articolazione con gli archi emali, collocano la vertebra in posizione distale tra le caudali anteriori, probabilmente tra il quinto e l’ottavo elemento della serie. Dal confronto con elementi omologhi delle stesse dimensioni facenti parte di scheletri più completi di titanosauri è stato anche possibile stimare per l’animale una lunghezza di circa 6 metri.

Gli altri due elementi ossei sono troppo frammentari e danneggiati per poterne stabilire la forma esatta, ma quello più sottile è probabilmente la porzione laminare di un elemento del cinto, forse parte della scapola, oppure si colloca lungo la parte stretta e allungata dell’ischio o del pube. L’altro frammento, più grande, probabilmente appartiene all’estremità prossimale di un elemento del cinto pelvico.

Gli autori hanno eseguito un’analisi filogenetica, anche qui con il software TNT, esaminando i caratteri della vertebra di modo da trovare le affinità dell’esemplare con altri titanosauriformi e quindi la sua posizione all’interno del gruppo. Sono stati applicati vari criteri di analisi dei caratteri, e i vari risultati ottenuti concordano nell’associare il titanosauro italiano a Malawisaurus, Mongolosaurus e Rapetosaurus, riunendoli in un clade affine a Saltasauridae all’interno del gruppo di titanosauri chiamato Lithostrotia. Data la scarsità di resti, tuttavia, gli autori si sono astenuti dal voler assegnare un nome al dinosauro, limitandosi a definirlo un titanosauro indeterminato.

E’ stata condotta anche un’analisi di tipo paleobiogeografico volta a stimare l’area di provenienza del probabile antenato comune dei taxa del clade a cui appartiene il titanosauro italiano. Va detto che i modelli ottenuti non sono precisi al 100% per via delle molte incognite legate soprattutto alla differenza tra le epoche di vita e le zone geografiche in cui i taxa sono vissuti; ciò nondimeno si delineano due ipotesi principali che vedono il taxon italiano giungere dall’Africa per insediarsi in Italia oppure far parte di un più ampio interscambio di faune che si spostavano tra Asia e Africa attraverso l’Europa. In ogni caso, la presenza di un titanosauro di età aptiano-albiana che mostra legami con forme africane ed asiatiche è compatibile con l’incremento nella diversità e della diffusione dei titanosauriformi che si osserva nel corso del Cretaceo Inferiore tra Barremiano a Albiano.

Nel loro studio Cristiano Dal Sasso e i suoi coautori sottolineano altri importanti aspetti paleobiogeografici legati al dinosauro di Rocca delle Cave: innanzitutto è il primo sauropode italiano del quale si abbiano resti ossei; è inoltre il più antico titanosauro rinvenuto in Europa meridionale, e insieme a Normanniasaurus é uno di due soli taxa del Cretaceo Inferiore attribuibile con certezza ai titanosauri. In un quadro più ampio, esso rafforza l’ipotesi di un ponte di terra che a quell’epoca collegava Africa ed Europa permettendo lo spostamento delle faune terrestri. Sono stati proposti vari modelli per spiegare l’estensione e l’ubicazione di questi ponti di terra, e il titanosauro italiano offre sostegno al cosiddetto modello di Adria, secondo il quale le faune africane si sarebbero disperse in Europa durante le fasi di emersione di un sistema di piattaforme carbonatiche che si estendevano dall’odierna Tunisia al Friuli; il titanosauro di Rocca delle Cave è solo l’ultimo di una serie di ritrovamenti significativi che corroborano questo modello: anche il celebre Scipionyx proviene da rocce carbonatiche di piattaforma, così come i resti di vertebrati terrestri dell’area friulana (primo fra tutti l’ornitopode Tethyshadros) e le orme rinvenute in vari siti della Puglia; pur non essendo fossili di organismi, le bauxiti del centro e sud Italia spesso rappresentano evidenze di paleosuoli e quindi di esposizione in ambiente subaereo di queste piattaforme carbonatiche del Cretaceo.

Cosa c’è di tanto sorprendente nel lavoro di Dal Sasso e colleghi, mi si chiederà. La risposta sta nel fatto che i ritrovamenti di dinosauri su suolo italiano sono ormai talmente tanti e talmente distribuiti nello spazio e nel tempo da rendere chiaro che l’Italia mesozoica non era poi così povera di dinosauri come si pensava fino a poco più di vent’anni fa. Certo, difficilmente il nostro paese conserverà nel sottosuolo un tesoro di ossa paragonabile a luoghi come il Nordamerica o la Mongolia, ma a questo punto è ragionevole pensare che i dinosauri italiani ci siano eccome, siano più grandi di quel che si pensava (il titanosauro era lungo 6 metri, il “saltriosauro” lombardo parrebbe essere ancora più grande, e nemmeno quelli che hanno lasciato le impronte in Puglia dovevano essere bruscolini!) e aspettino solo di essere trovati. Come fare a trovarli? Come sempre quando si tratta di fossili è tutta una questione di trovare il posto giusto e avere una buona dose di fortuna!

 

Si ringrazia Giuseppe Marramà per avermi fornito il materiale per questo articolo


Bibliografia

  •  Tschopp et al. (2015), A specimen-level phylogenetic analysis and taxonomic revision of Diplodocidae (Dinosauria, Sauropoda). PeerJ 3:e857; DOI 10.7717/peerj.857
  • Sasso, C.D., Pierangelini, G., Famiani, F., Cau, A., Nicosia, U., First sauropod bones from Italy offer new insights on the radiation of Titanosauria between Africa and Europe, Cretaceous Research (2016), doi: 10.1016/j.cretres.2016.03.008.

Paleodays 2016 – Congresso della Società Paleontologica Italiana a Faenza

Daniele Tona – 22 giugno 2016

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Com’è ormai un appuntamento fisso, anche quest’anno Scienza facile era presente alle Giornate di Paleontologia, organizzate ogni anno dalla Società Paleontologica Italiana per dar modo ai suoi soci di riunirsi e presentare al resto della comunità paleontologica le loro ricerche.

La XVI edizione del congresso, tenutasi dal 25 al 27 maggio 2016, è stata organizzata dall’Università degli Studi di Firenze in collaborazione con il Museo Civico di Scienze Naturali “Malmerendi” di Faenza, sede del congresso. Questa struttura è nata nel 1980 a seguito dell’acquisizione della collezione ornitologica e entomologica di Domenico Malmerendi a cui è intitolata, ed conserva sia la suddetta collezione sia una vasta raccolta di fossili risalenti all’ultimo milione di anni di storia del territorio faentino; è nelle sue sale che si sono tenute le sessioni di comunicazioni orali così come l’esposizione dei poster presentati dai partecipanti al congresso.

 

E’ ormai una tradizione nella tradizione che il congresso vero e proprio sia anticipato dalla tavola rotonda di Palaeontologist in Progress, organizzata e dedicata ai giovani ricercatori per esprimere le loro idee e proposte per il futuro della disciplina.

Quest’anno il dibattito è stato un po’ più breve rispetto agli anni passati, ed ha gravitato soprattutto su una problematica significativa, vale a dire il riconoscimento della figura del paleontologo e più in generale del professionista nell’ambito dei Beni Culturali, e di conseguenza la necessità di porre dei requisiti in termini di titolo di studio per garantire l’accesso ai concorsi pubblici (e quindi ai posti di lavoro) in primo luogo a chi li soddisfa ed ha perciò le competenze adatte a svolgere quel lavoro.

Il motivo per cui quest’anno la tavola rotonda ha avuto una durata minore e meno argomenti è che parte della giornata è stata dedicata a un’escursione sul terreno. Meta dell’uscita è stata la Grotta della Tanaccia in località Brisighella, visitata grazie alla guida e all’assistenza del Gruppo Speleologico Faentino. La Tanaccia è una grotta particolare poiché si è sviluppata non attraverso i calcari come accade nella maggior parte dei casi, bensì attraverso i depositi di gesso che formano i rilievi della zona di Faenza. Durante l’escursione è possibile osservare l’azione dell’acqua sugli strati di solfato di calcio e le cavità e le strutture che l’azione combinata di dissoluzione e deposizione hanno creato nel corso del tempo; attenzione, però, perché chi fosse interessato è bene che sappia che non è una tranquilla camminata lungo grotte ampie e ben illuminate, ma un’escursione attraverso cunicoli e passaggi anche piuttosto stretti, che richiede l’uso di caschi, torce e un adeguato equipaggiamento.

 

Nonostante gli acciacchi e i crampi dovuti all’avventurosa esplorazione della grotta (o almeno, questa era la situazione di chi scrive), mercoledì 25 maggio i “PaiPeristi”, come noi si è soliti chiamarsi, si sono riuniti al resto dei congressisti per la prima giornata di comunicazioni presso il museo. Come sempre, per questioni di spazio posso solo limitarmi a una rapida carrellata dei molti lavori presentati, ma spero che ciò basti a rendere l’idea della varietà di ambiti di cui si occupa la comunità paleontologica italiana.

Il congresso si è aperto con i saluti del presidente e delle autorità locali, dopo di che Edoardo Martinetto ha inaugurato i lavori con una relazione a invito sui resti di piante della cosiddetta Vena del Gesso. Questa unità, e più in generale il Miocene Superiore durante il quale essa si è depositata, è stata oggetto di numerose comunicazioni riguardanti l’erpetofauna, l’ittiofauna e più in generale il contesto paleoambientale dell’epoca riferito sia all’area mediterranea sia ad altre parti del mondo (come la regione di Al Gharbia negli Emirati Arabi, la Formazione Pisco del Perù). C’è stato comunque modo di spaziare su molti altri argomenti e categorie tassonomiche, con lavori sui coccodrilli americani e la loro origine, l’endocranio dei placodermi, felidi e orsi delle caverne, i brachiopodi e le loro diverse strategie di vita, molluschi olocenici e triassici, i coralli e la loro sistematica, foraminiferi del Pliocene, la famosa fauna eocenica di Bolca, palinostratigrafia del Mesozoico della Sicilia e altro ancora. Non solo studi di anatomia pura, quindi, ma anche di paleoecologia e stratigrafia, e soprattutto un uso sempre più diffuso di tecniche di indagine quali la TAC o le nanotecnologie, a dimostrare che anche se i paleontologi studiano le vestigia del passato non significa che il modo con cui le studiano debba restare ancorato al passato!

 

La seconda giornata di congresso è quella tradizionalmente dedicata all’escursione sul terreno, tenutasi quest’anno giovedì 26 maggio. Le tre tappe dell’escursione di quest’anno hanno toccato tre parti della successione stratigrafica caratteristica dell’Appennino romagnolo depostasi tra la fine del Miocene e l’inizio del Pliocene, cioè tra poco meno di 8 e 5 milioni di anni fa.

Dal punto di vista litostratigrafico la successione è composta da quattro unità principali: la più antica è la Formazione Marnoso-arenacea, formata da torbiditi silicoclastiche di mare profondo che, a cavallo del limite Tortoniano-Messiniano (circa 7,2 milioni di anni fa) diventano peliti finemente laminate e ricche di sostanza organica denominate “peliti eusiniche”.

Sopra alla Formazione Marnoso-arenacea si trova la Formazione Gessoso-solfifera, che nella Romagna occidentale prende il nome di Vena del Gesso; essa è data da depositi evaporitici che rappresentano l’importante evento chiamato “crisi di salinità messiniana”, avvenuto quando il movimento delle placche portò alla temporanea chiusura dello stretto di Gibilterra e quindi all’interruzione del collegamento tra Mar Mediterraneo e Oceano Atlantico; storicamente si pensava che in tale periodo di isolamento il Mediterraneo si fosse lentamente prosciugato fino al suo totale disseccamento per evaporazione delle sue acque, e gli spessi depositi evaporitici di salgemma, gesso e altri sali sarebbero il risultato di tale prosciugamento. Un modello più recente ipotizza invece che il Mediterraneo non fosse del tutto sigillato, ma che comunicasse limitatamente con altre masse d’acqua come il Mar Rosso e in minima parte anche con l’Atlantico; il livello del mare era quindi molto più basso rispetto a oggi perché l’acqua persa per evaporazione era maggiore dell’acqua ricevuta dall’esterno, ma gli influssi periodici che giungevano da est e in parte anche da uno stretto di Gibilterra non del tutto occluso permettevano al Mediterraneo di non prosciugarsi del tutto. Secondo questo modello il Mediterraneo era quindi una sorta di grande salina, dove ciclicamente il livello del mare si abbassava per evaporazione depositando le evaporiti, per poi innalzarsi nuovamente in un secondo momento con l’apporto da altre masse d’acqua; il risultato è lo sviluppo di una serie di cicli evaporitici, dei quali ne sono stati contati ben 16 nella Vena del Gesso corrispondenti a un intervallo di tempo che va da 5,96 a 5,61 milioni di anni fa; ogni ciclo è dato da vari strati di cristalli di gesso grandi e ben definiti alla base che verso l’alto passano a microcristalli man mano che la concentrazione di ioni disciolti nell’acqua diminuiva; questi ultimi lasciano il posto a sottili livelli pelitici e talvolta fossiliferi depositati durante la fase di emersione, che a loro volta venivano ricoperti da un nuovo strato evaporitico una volta che il livello del mare risaliva.

Alla Formazione Gessoso-solfifera segue la Formazione a Colombacci, data da litologie di ambienti continentali, deltizi e lagunari sviluppatisi durante la fase finale del Messiniano ai margini di un Mediterraneo che iniziava a riempirsi col concludersi della “crisi di salinità”; il nome deriva dal colore grigiastro dei calcari lacustri osservati in alcune successioni di bacino marginale della Roamgna orientale. Infine, col passaggio al Pliocene 5,33 milioni di anni fa, inizia la deposizione della Formazione ad Argille Azzurre, rappresentata da peliti di mare profondo che evidenziano il ritorno a condizioni francamente marine una volta che il collegamento con l’Atlantico si è del tutto ripristinato; come si vedrà nel terzo stop dell’escursione, questa unità pelagica localmente passa a conglomerati di riempimento di paleocanale, a torbiditi arenacee o a carbonati di piattaforma.

 

Il primo stop è stato a Cava Monticino presso la cittadina di Brisighella, in provincia di Ravenna. Il sito era originariamente una cava in cui veniva estratto il gesso, ma nel 1985 Antonio Benericetti trovò dei resti fossili nel riempimento argilloso di alcune fessure nei depositi di gesso, il che portò all’interruzione dell’attività di estrazione del gesso per far spazio al recupero dei fossili nel corso degli anni successivi e quindi, nel 2006, all’istituzione di un parco-museo geologico per preservare questo importante sito paleontologico.

L’affioramento di Cava Monticino espone il passaggio dalle unità evaporitiche messiniane deformate da un evento tettonico avvenuto 5,6 milioni di anni fa alle Argille Azzurre plioceniche; osservando da una certa distanza (e il sentiero lo permette, poiché conduce a un punto panoramico che domina l’intero fronte di cava) si possono vedere bene i livelli evaporitici con un’inclinazione di circa 60° sovrastati dalle argille la cui giacitura è molto meno inclinata e si attesta sui 20°. Questa differenza di giacitura, unita al profilo irregolare del limite tra le due unità, è definita discordanza angolare.

In mezzo ai due banchi di strati si trova il motivo principale dell’importanza di Cava Monticino dal punto di vista paleontologico. Prima della deposizione delle Argille Azzurre, infatti, la Vena del Gesso già deformata dalla tettonica andò incontro a emersione alla fine del Messiniano; poiché il solfato di calcio, ossia il gesso, è molto solubile in acqua la sua esposizione lo ha reso molto suscettibile a fenomeni carsici (gli stessi che hanno formato la Grotta della Tanaccia), creando depressioni, fessure e cavità nelle quali è andato poi a depositarsi il sedimento continentale della Formazione a Colombacci. E’ in questo sedimento che sono stati trovati i resti fossili della fauna a vertebrati che abitava la zona di Brisighella prima che il mare la riconquistasse nel Pliocene depositando le Argille Azzurre; si tratta di una fauna molto variegata, che comprende sia macro che microvertebrati appartenenti a tutti i gruppi principali; sono state identificati ben 58 taxa diversi, di cui 39 solo di mammiferi di cui 5 rinvenuti per la prima volta a Cava Monticino: lo ienide Plioviverrops faventinus, il canide Eucyon monticinensis, il bovide Samotragus occidentalis e i muridi Stephanomys debruijni e Centralomys benericettii.

 

La seconda tappa dell’escursione ha condotto i congressisti al Rifugio Ca’ Carnè, sempre dalle parti di Brisighella. Nonostante si sia stati accolti dal profumo di carne alla griglia e l’appetito cominciasse a farsi sentire, prima di mettersi a tavola c’è stato il tempo di visitare un altro affioramento, assai meno imponente di Cava Monticino ma non meno interessante.

L’affioramento in questione consiste di alcuni blocchi calcarei che emergono dal versante della collina poco distante dal rifugio; questi blocchi appartengono alla Formazione Marnoso-arenacea, più precisamente alla porzione pelitica più sommitale depostasi nel Tortoniano Superiore, appena prima della crisi di salinità messiniana. Peculiarità di queste rocce è il fatto di essersi formate nei pressi di fuoriuscite di metano o di acido solfidrico dal fondale marino, dove si formarono comunità di organismi che vivevano in simbiosi con batteri chemiosintetici capaci di ricavare nutrimento dalle esalazioni gassose; i simbionti più comuni di questi batteri sono i bivalvi, in particolare si riconoscono una biofacies a Lucinidae di grandi dimensioni (anche 18 cm di larghezza per Lucina hoernea) – che peraltro conferisce il nome di “calcari a Lucina” a questi depositi) ed una biofacies dove invece la forma dominante è riconducibile ai Modiolinae attuali del genere Bathymodiolus; laddove forme come Phacoides perusinus sono più comuni, lucinidi e modiolini sono di solito mutualmente esclusivi, nel senso che se è presente il primo manca il secondo e viceversa; si pensa che i due gruppi di bivalvi si associassero a tipi differenti di batteri chemiosimbionti, colonizzando aree diverse a seconda della maggior concentrazione del gas più favorevole al loro sostentamento.

Terminata la visita ai calcari il gruppo ha fatto ritorno al rifugio, dove ha potuto finalmente rifocillarsi con il lauto pranzo a base di carne, formaggi, vini e altri validi motivi di carattere enogastronomico per partecipare ai congressi della Società, nel caso i fossili non siano un incentivo già abbastanza convincente.

 

La terza e ultima fermata dell’escursione si è tenuta un po’ più lontano rispetto a Faenza, più precisamente a Rio dei Cozzi vicino a Castrocaro. In questa zona affiora una particolare litofacies della Formazione delle Argille Azzurre datata al Piacenziano: si tratta di una biocalcarenite di ambiente poco profondo formata dalle parti dure carbonatiche di vari organismi marini, tra cui molluschi, brachiopodi, briozoi, foraminiferi e alghe calcaree.La diagenesi ha agito in modo differenziale a seconda del grado di cementazione e del tipo di parti dure soggette ai processi diagenetici, il che ha portato alla conservazione della maggior parte dei gusci di molluschi sotto forma di modello interno o di impronte, e più in generale ad una roccia porosa perforata da cavità; non è un caso che nel 1880 il geologo Giuseppe Scarabelli denominò questa facies “spungone”, dal termine dialettale spungò, proprio per evidenziare il suo aspetto spugnoso. Lo “spungone” affiorante a Rio dei Cozzi poggia in discordanza su un substrato miocenico di torbiditi appartenenti alla Formazione Marnoso-arenacea; in situ si può notare molto bene la differenza tra le due unità, con le torbiditi mioceniche ben stratificate ma più erose su cui poggia la roccia calcarea più resistente, che forma una sorta di tettoia naturale che sporge sul sentiero.

La visita allo “spungone” di Rio dei Cozzi ha concluso l’escursione sul terreno ma non la giornata di congresso, perché una volta rientrati a Faenza i congressisti hanno potuto visitare il Museo Internazionale delle Ceramiche. Faenza è rinomata per le sue ceramiche, e il museo ha l’obiettivo di raccontare la storia di quest’arte millenaria; è più un museo archeologico che artistico, poiché espone pezzi contemporanei ma anche reperti antichi che risalgono all’antico Egitto o alle civiltà precolombiane. Esula un po’ dal contesto tipico dei paleontologi ma se vi capita di passare per Faenza merita una visita, ovviamente insieme al Museo di Scienze Naturali.

In ogni modo, dopo aver nutrito la mente è infine giunto il momento di nutrire anche il corpo, perciò la seconda giornata ha avuto degna chiusura alla sede del Rione Rosso (uno dei quartieri in cui è diviso il centro storico di Faenza) per un’altra delle immancabili tradizioni delle Giornate di Paleontologia: la cena sociale. E dopo una serata trascorsa a mangiare, bere e ascoltare buona musica ci si è dati la buonanotte per ritrovarsi l’indomani per l’ultima giornata di congresso.

 

Arriviamo così a venerdì 27 maggio, giornata conclusiva dei Paleodays 2016, che ha visto il ritorno al Museo di Scienze Naturali dove è stato dato nuovamente spazio ad altre comunicazioni orali. Nelle quattro sessioni della giornata sono stati presentati lavori su tecniche e metodologie d’indagine di brachiopodi e bivalvi, su vari taxa di mammiferi, rettili e più in generale associazioni fossili del Cretaceo e di vari momenti del Cenozoico, sullo studio dei foraminiferi allo scopo di ricostruire le variazioni climatiche negli ultimi tre millenni. Avendo il sottoscritto una dichiarata preferenza per i grandi rettili mesozoici, la comunicazione che più ha colto la mia attenzione ha riguardato la presentazione di uno studio sul vincolo imposto all’evoluzione del volo attivo dal sistema di ventilazione accessorio detto cuirassale, basato sul meccanismo che collega i gastralia al pube tramite il muscolo ischiotruncus, e su come il passaggio a un diverso sistema di ventilazione abbia permesso al pube dei teropodi precursori degli uccelli di ruotare all’indietro, creando così uno dei presupposti anatomici basilari per evolvere un volo attivo e controllato. Non mi dilungo più di tanto ma dico solo che si tratta di un lavoro davvero brillante a opera di una giovane paleontologa molto promettente.

Il congresso si è chiuso con l’annuale assemblea dei soci sui cui contenuti non sto a tediare ulteriormente chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, ma una cosa posso anticiparla ed è la proposta di candidatura di Anagni come sede del congresso del 2017.

Parallelamente allo svolgimento dei lavori è doveroso menzionare anche le iniziative del PaiP, prima fra tutte l’asta volta a raccogliere fondi da investire in borse di studio e nelle attività della SPI; così come l’anno scorso, anche stavolta in molti hanno offerto libri, monografie o anche oggetti da collezione come francobolli e ciondoli; la cifra raccolta è stata consistente, superando i 400 euro destinati a rimpinguare le casse della SPI.

 

Quindi, per concludere questa neanche tanto breve cronaca delle Giornate di Paleontologia, ancora una volta sono state un’esperienza molto positiva. E’ davvero stimolante potersi confrontare con persone con i propri stessi interessi e ambiti di studio, scambiarsi idee e anche imparare qualcosa di nuovo e allargare i propri orizzonti.

Vale la pena menzionare una volta di più la grande partecipazione dei giovani ricercatori, studenti, laureati, dottorandi e paleontofili che ormai rappresentano la stragrande maggioranza dei partecipanti al congresso e che sono ormai anche parte integrante degli organi direttivi della Società. E’ la riprova che la comunità paleontologica italiana è più viva che mai, e che a dispetto della difficile situazione della ricerca in Italia le nuove generazioni di paleontologi sono pronte a prendere in mano le redini di questa scienza tanto affascinante.

Il Piccolo Drago e Il Gigante Ritrovato: Nuove Scoperte Sui Dinosauri

Daniele Tona  – Dicembre 2015

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Come è noto la paleontologia è una scienza in costante cambiamento: nuove scoperte si susseguono ogni anno a un ritmo incessante, e con esse nascono nuove ipotesi e cadono vecchi preconcetti. E’ raro che un’idea in paleontologia rimanga, si passi il gioco di parole, scolpita nella roccia, poiché basta che saltino fuori dei resti meglio conservati di quelli su cui tale idea si basa per sgretolare quello che fino al giorno prima era un dogma incrollabile.
I fossili sono nella maggior parte dei casi incompleti, talvolta consistono solo di un singolo frammento e ricostruire l’aspetto di un organismo estinto è più spesso che no un lavoro di congettura e speculazione tanto più attendibile quanto più completi sono i resti. Quando va bene ci si può basare sui parenti più stretti di quell’organismo, ma in molti casi si può solo azzardare delle ipotesi che ritrovamenti più completi possono in un secondo tempo ribaltare completamente.
Negli ultimi anni la paleontologia dei dinosauri è stata interessata proprio da questo fenomeno che ha rivoluzionato il modo con cui eravamo soliti vedere questi animali. E’ ormai un dato di fatto che gli uccelli sono a tutti effetti gli ultimi dinosauri rimasti, che le piume si siano evolute molto prima del volo e che erano molto più diffuse di quanto ritenga la cultura popolare (sebbene ultimamente anche i non addetti ai lavori comincino a essere consapevoli dello stretto legame tra dinosauri mesozoici e uccelli, e qua e là si scorgono teropodi piumati anche in opere non rivolte agli specialisti); anche noi di Scienza Facile abbiamo parlato del nuovo modo di vedere dinosauri e uccelli in questo articolo, che abbiamo in seguito aggiornato quando nuove scoperte hanno svelato ulteriori aspetti della questione. Ogni anno vengono alla luce nuovi dinosauri coperti di penne, e fra poco vedremo che anche un concetto relativamente recente come quello di “dinosauro piumato” può riservare sorprese inaspettate.
D’altro canto, le nuove scoperte possono riguardare anche animali noti già da molto tempo. Abbiamo già parlato ampiamente di Spinosaurus (qui e qui) e di come un recente studio abbia dato un nuovo aspetto e nuove probabili abitudini a un dinosauro scoperto ormai un secolo addietro. Altri dinosauri sono noti da una manciata di resti, e spesso dare loro un aspetto attendibile può essere molto difficile se non impossibile; si può stabilire a quale gruppo appartenessero, ma un identikit completo finirà sempre per discostarsi almeno in parte dalla realtà. Come vedremo più avanti, a volte può capitare che nuovi ritrovamenti permettano di gettare finalmente luce sulle reali fattezze di questi misteriosi dinosauri, e quello che emerge può essere ben lontano da ciò che per decenni ci siamo aspettati.

Ma andiamo con ordine, e parliamo del primo protagonista della nostra storia. Il lavoro di Xu et al. (2015) descrive un nuovo dinosauro teropode dalla località di Mutoudeng, nella provincia cinese di Hebei. Il dinosauro è stato battezzato Yi qi (pronunciato “ii cii”), che si può tradurre dal cinese mandarino in “ala strana”, in riferimento alla caratteristica più peculiare della sua anatomia.
L’olotipo, cioè l’esemplare su cui è basata la diagnosi del nuovo taxon, è uno scheletro parziale articolato e associato a tracce delle parti molli proveniente da strati della Formazione Tiaojishan; quest’unità si è depositata tra Calloviano e Oxfordiano, al passaggio tra Giurassico Medio e Superiore, quindi in un intervallo di tempo compreso all’incirca tra 164 e 155 milioni di anni fa.
L’olotipo è considerato un adulto per via del fatto che i centri vertebrali sono saldati alle spine neurali, e la massa corporea stimata dagli autori è di circa 380 grammi mentre le sue dimensioni erano grossomodo quelle di un gazza; Yi era quindi un dinosauro davvero piccolo. Il suo cranio è relativamente robusto, con grandi orbite, un muso corto e l’estremità anteriore della mandibola inclinata verso il basso; il premascellare porta quattro denti, dei quali il più anteriore è anche il più grande, mentre altri denti sono visibili sull’osso dentale della mandibola; piccoli e appuntiti, si pensa servissero soprattutto per mangiare insetti.
Passando alle zampe, l’arto anteriore possiede una scapola proporzionalmente corta e un omero lungo e robusto oltre a mostrare un allungamento estremo delle ossa della mano, in particolare del terzo dito in cui sia il metacarpo (l’osso del palmo) sia le falangi sono enormemente allungate, molto più delle ossa del primo e del secondo dito. Il carattere più straordinario di Yi è però senza dubbio la struttura associata a entrambi i polsi; ha la forma di una bacchetta leggermente incurvata che si assottiglia verso la punta, e da sola è più lunga dell’intero avambraccio. L’osservazione a elevato ingrandimento di queste strutture ha mostrato colore e aspetto superficiale simili a quelle delle ossa, un’interpretazione confermata dall’analisi della bacchetta associata al polso destro con spettrometria EDS (Energy Dispersive X-ray Spectrometry), da cui è emersa una composizione compatibile con quella di un osso o di un elemento scheletrico di cartilagine calcificata. Gli autori hanno denominato questa struttura elemento stiliforme; esso non ha pari tra i dinosauri, ma richiama strutture simili di altri tetrapodi, come l’osso pteroide degli pterosauri e l’elemento allungato che si estende dal polso dello scoiattolo volante Petaurista leucogenys.
Oltre all’elemento stiliforme l’altra caratteristica che rende significativo il ritrovamento di Yi è la presenza di parti molli conservate insieme alle ossa. Benché sia solo l’ultimo di una lunga serie di dinosauri piumati, è la combinazione delle parti molli rinvenute a renderlo unico; nello specifico si sono preservati due tipi di strutture tegumentarie: le penne e il tessuto molle membranoso.
Le penne sono sottili, rigide e filamentose. Attorno al cranio si osservano penne lunghe 15-20 mm, altre penne lunghe circa 30 mm crescono attorno al collo mentre penne di 35-60 mm sono attaccate all’arto anteriore e a quello posteriore, giù fino al metatarso (l’osso della pianta del piede) compreso. Le penne sono molto addensate in alcune aree, perciò non è facile capire se fossero o meno ramificate; alcune penne isolate mostrano però filamenti multipli, mentre la maggior parte delle penne sugli arti presenta una morfologia unica definita a pennello, con una struttura singola simile a un calamo e larga circa 1,2 mm che parte dalla base e si estende fino a tre quarti della lunghezza della penna per poi dividersi in numerosi filamenti paralleli più sottili.
Il tessuto molle membranoso è invece osservabile sotto forma di chiazze visibili tra gli elementi stiliformi e le dita di entrambe le mani. Queste chiazze hanno un aspetto laminato e in alcune aree mostrano evidenti striature che sono state interpretate come fibre interne oppure pieghe molto addensate del tessuto. Di certo questo tessuto membranoso non ricorda alcun tipo di tegumento osservato sugli altri teropodi mesozoici provenienti dalla Cina meridionale.
L’osservazione al SEM (microscopio elettronico a scansione) delle tracce di tegumento ha inoltre mostrato delle strutture che sono state interpretate come melanosomi, cioè organelli cellulari responsabili della produzione del pigmento chiamato melanina che conferisce colore alla pelle o, in questo caso, alle penne. Essi variano molto in termini di dimensione (spaziano dai 300 ai 2100 nanometri di lunghezza dell’asse maggiore), forma e densità di distribuzione, e alcuni sono fra i melanosomi più grandi mai osservati su penne fossili o attuali.
L’analisi filogenetica di Yi lo colloca tra i teropodi della famiglia degli Scansoriopterygidae, piccoli dinosauri caratterizzati dal terzo dito molto allungato che oltre a Yi comprendono i generi Epidexipteryx e Scansoriopteryx, vissuti nella sua stessa area ed epoca. Essi si collocano all’interno del gruppo dei Paraves, alla base del clade che comprende da una parte i Deinonychosauria (ossia dromeosauridi e troodontidi) e dall’altra gli uccelli e i loro precursori diretti del gruppo degli Avialae. Nonostante la posizione molto derivata della famiglia, gli scansoriopterigidi sono privi delle penne complesse degli altri Paraves e sono considerati un caso di divergenza morfologica estrema: sebbene braccia munite di penne complesse esistessero già nei teropodi, fino a quel punto nessuno di essi era stato in grado di volare; gli scansoriopterigidi rappresenterebbero quindi una sorta di “esperimento” della natura nelle prime fasi di evoluzione del piano corporeo dei teropodi verso una forma adatta al volo, una possibile soluzione in cui le penne delle braccia sono scomparse e sono state sostituite da una membrana tesa fra il terzo dito della mano allungato all’inverosimile e il corpo; nel caso di Yi tale membrana godeva anche del sostegno offerto dall’elemento stiliforme, mentre negli altri scansoriopterigidi non è stata ancora osservata, sebbene se a questo punto la sua presenza non sia da escludere anche negli altri generi del gruppo. C’è un che di ironico nel fatto che, se confermata, la peculiarità anatomica di Yi gli darebbe a tutti gli effetti l’aspetto di un piccolo drago: in cinese, infatti, “dinosauro” si dice kǒnglóng, che vuol dire “drago terribile”.

A questo punto la domanda sorge spontanea: Yi qi volava? E se sì, come? Gli autori sottolineano che i pochi casi noti di amnioti in possesso di elementi stiliformi usano invariabilmente queste strutture per sostenere membrane aerodinamiche che conferiscono loro la capacità di volare in modo planato o attivo, perciò è ragionevole pensare che l’elemento stiliforme di Yi avesse la stessa funzione. Tuttavia, l’unico esemplare finora rinvenuto è incompleto e perciò non è facile ricostruire con accuratezza l’orientazione dell’elemento stiliforme rispetto al polso e quindi la forma della membrana. La mancanza di estese superfici di inserzione dei muscoli e la possibilità che l’elemento stiliforme rigido e lungo interferisse con il movimento oscillatorio e rotatorio che il braccio avrebbe descritto durante un volo attivo lascia inoltre pensare che, se effettivamente Yi fosse stato in grado di volare, avrebbe fatto affidamento sopratutto al volo planato.
In ogni caso, sostengono gli autori e concorda il sottoscritto, se anche Yi non fosse stato un volatore avrebbe comunque rappresentato un caso unico fra i dinosauri di convergenza evolutiva con le ali di altri vertebrati volatori come pipistrelli e pterosauri. Di certo costituisce un esempio della varietà di morfologie sperimentate dall’evoluzione all’alba del cammino e poi del decollo dei dinosauri verso la loro ultima frontiera: il cielo.

novità riguardo i Dinosauri 1

L’altro protagonista di questo articolo è Deinocheirus mirificus, da sempre uno dei grandi enigmi della paleontologia dei dinosauri sin dalla sua scoperta nel 1965, nel corso della spedizione congiunta polacco-mongola condotta nel sito di Altan Uul III, nel deserto del Gobi meridionale. Sin da allora tutti i libri sui dinosauri riportarono l’immagine di due spaventose braccia lunghe due metri e mezzo, ciascuna munita di tre lunghe dita terminanti in acuminati artigli. Invero, il poco materiale fossile a disposizione è stato comunque sufficiente da permettere ai paleontologi di inserire Deinocheirus all’interno del gruppo degli Ornithomimosauria, ossia i teropodi che, per aspetto e probabili abitudini, ricordavano gli struzzi odierni (e di recente si è scoperto che erano anche coperti di piume come gli struzzi; ne abbiamo parlato anche noi di Scienza Facile in questo articolo[2]). A parte questo, però, l’effettivo aspetto di questo animale è rimasto un mistero per molto tempo, ad eccezione di un solo dettaglio: era un essere enorme.
Il velo di mistero che circondava Deinocheirus si è infine sollevato negli ultimi anni grazie ad alcuni ritrovamenti straordinari descritti dal lavoro di Lee et al. (2014) pubblicato su Nature. Due nuovi esemplari hanno infatti restituito abbastanza materiale scheletrico da poter ricostruire l’anatomia di Deinocheirus quasi nella sua Leggi tutto “Il Piccolo Drago e Il Gigante Ritrovato: Nuove Scoperte Sui Dinosauri”

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