Come deve essere la Divulgazione (I parte)

Stefano Rossignoli 18 agosto 2009

Questa volta la domanda me la sono fatta da solo e mi rendo conto sia della difficoltà, sia della presunzione nel rispondere, visto che conosco decine di divulgatori di professione ed alcuni sono molto più bravi di me!

Comunque sia, la divulgazione passa per prima cosa dalla competenza.
Un divulgatore deve padroneggiare l’argomento trattato con disinvoltura, una disinvoltura che passa dalla conoscenza.
Non bisogna essere semplicemente disinvolti con gli interlocutori, cosa a cui ci si abitua in breve tempo anche essendo incompetenti, ma bisogna muoversi all’interno dell’argomento e conoscerne a fondo le basi. Bisogna averne una conoscenza che permetta i collegamenti all’interno della materia e, se possibile (in ambito Naturalistico poi è necessario), con altri argomenti correlati.
Spesso capita di non essere in grado di rispondere alle domande e non credo che sia un grande problema ammettere di non sapere. Non si può sapere tutto. E bisogna sapersi fermare laddove non ci si senta abbastanza preparati. Spesso mi capita di ammettere la mia ignoranza in qualcosa e tralasciare per un attimo il ruolo di guida e chiacchierare semplicemente per un po’…

Una tecnica che utilizzo da diverso tempo è accertarmi di ricordare le fonti da cui ricavo le informazioni che do, altrimenti evito di parlarne. E’ molto utile e si evitano grandissimi errori, errori che ho fatto in passato e che cerco assolutamente di evitare adesso e per il futuro.

La divulgazione deve essere semplice…

Io credo che sia un’arte riuscire ad essere semplici e comprensibili alle orecchie di tutti, ed è impossibile quando i gruppi sono molto eterogenei, per livello di istruzione o per età, ma si può e si deve dare a tutti qualcosa, partendo dai concetti più semplici ed addentrandosi ogni tanto nello specifico.
Il rischio è di disabituarsi troppo al rigore scientifico ed abbassarsi continuamente di livello durante la pratica divulgativa e credo che questa sia la cosa peggiore.
E dopo un po’ di tempo dalla fine della formazione universitaria si risulta essere degli incompetenti…

Di sicuro può aiutare rimanere nell’ambito della ricerca e quindi automaticamente in continuo aggiornamento, ma in Italia è quasi impossibile lavorare in questo ambito, allora è la passione e dedizione del singolo divulgatore a tenerlo costantemente informato.
Aiutano moltissimo a questo proposito i gruppi di studio tra colleghi che alimentano il dialogo e forniscono spunti su svariati argomenti, considerando che un gruppo di studio si crea facilmente anche in due minuti davanti alla macchinetta del caffè di un museo o in un parcheggio prima di un’uscita naturalistica!

Dall’altro lato, il rigore scientifico imparato sui banchi dell’università, può essere deleterio, sia nell’approccio con gli interlocutori, sia nella chiarezza espositiva. Ciò è dovuto al fatto che la trattazione a livello universitario, da troppe cose per scontate e la terminologia tecnica risulta incomprensibile.
Ma non lo si può di certo abbandonare. E’ indispensabile.
Allora bisogna essere delle fabbriche di idee, di esempi, ma corretti e non fuorvianti.
L’esperienza poi è necessaria. Con gli anni si impara a non mettersi nei guai, evitando ad esempio argomenti troppo complessi con bambini troppo piccoli e soprattutto a non dare nulla per scontato.
Alla gente poi piace ascoltare le esperienze sul campo, piace capire come si arriva a conoscere certi fenomeni, ecc. Far capire è importante, una, due cose, ma bene e con il giusto approccio.
…ed il lavoro è fatto ed è pure una grandissima soddisfazione.

Dunque buon lavoro COLLEGHI!!!

Seconda parte: dizione e grammatica

Il microclima delle grandi metropoli

Studiando recentemente (17 gennaio 2011) un testo di Geografia fisica, mi sono reso conto del fatto che sono conosciuti dati a riguardo da molto tempo, ma lascio comunque questo mio tentativo, non certamente completo ma mi auguro interessante…! vediamo un po’

Stefano Rossignoli 29 maggio 2009

Questa resta sempre e solo una teoria, in quanto non ancora dimostrata. Oltre al fatto che per dimostrarla servirebbe molto tempo e strumentazione troppo costosa per le mie tasche.
Comunque sia, credo che il clima delle grandi Città sia una cosa a sé stante e dipenda certamente da dove si trova la metropoli, ma anche dalla quantità di calore prodotta dalla metropoli stessa.
Ancora non è chiaro da cosa dipendano le variazioni attuali del clima globale, ma sembra che in città abbiamo parecchio controllo delle condizioni di umidità e temperatura.
Prendo come esempio Milano ed il mio paese che si trovano a 20 km di distanza.
Il mio paese è molto trafficato, ma si trova ancora in aperta campagna, mentre a Milano, tutti sanno che di verde ne è rimasto ben poco.
Normalmente, quando mi reco a Milano, noto un aumento di temperatura di circa 2°C, per non parlare dell’aumento ulteriore di temperatura che percepisco quando entro in circonvallazione esterna, ma non è solo questo. Anche l’umidità è nettamente diversa. Da me le nebbie sono diminuite rispetto al passato, ma son sempre presenti in inverno. A Milano la nebbia non esiste, salvo quando da noi ‘la si taglia con il coltello’! Nevica sempre molto meno che nel mio paese. Se da me vengono 40cm, a Milano ne cadono 25. A volte da me nevica ed a Milano piove. Non credo sia un caso che le nevicate importanti che scendono a Milano, corrispondano sempre a periodi di festa come intorno al 31 dicembre o all’Epifania e potrebbe dipendere dal fatto che la città ‘dorme’ e non produce calore come nei periodi lavorativi.
Quando la città è ‘sveglia’ basta che il cielo si copra di nuvole per avere un aumento importante della temperatura che riesce a coinvolgere anche i dintorni… Un’altra cosa che ho notato è che le ultime nevicate importanti, sono giunte velocemente dopo periodi di sereno in cui le temperature minime sono potute scendere in modo repentino. Insomma. se è tutto vero, nevicherà soltanto in vacanza, a meno che ci diamo una bella regolata nella produzione di calore pro capite, inteso come numero di automezzi, riscaldamenti e cementificazione!

Quanto doveva essere grande l’Arca di Noè?

L’arca di Noè? Un’impresa impossibile per un uomo ed anche per la più grande industria sulla Terra. L’arca di Noè è la terra stessa. Solo il nostro pianeta con i suoi ecosistemi è in grado di mantenere in vita le proprie specie viventi.

Stefano Rossignoli 29 maggio 2009

Questo argomento lo trovo particolarmente simpatico e mi ha dato anche spunto per la nascita di questo blog…

E’ nato tutto a tavola, durante una chiacchierata con mio padre, quando ad un tratto del discorso dico:”O credo alla scienza, o credo al Diluvio Universale!” E lui mi chiede:”Perchè? Non c’è stato il Diluvio?”.

E io mi sono sentito anche in colpa!

Perchè cercare di distogliere una convinzione radicata da così tanto tempo nel cervello e nel cuore di un uomo?

Comunque sia, la fortuna vuole che mio padre fosse appena tornato da una crociera a bordo di una nave gigantesca lunga circa 300m e lui stesso ha concluso con questa domanda:”Chissà quanto doveva essere lunga l’arca di Noè per farci stare tutto?”, conscio del fatto che fosse improbabile costruire una nave così grande.

Io ho cominciato a pensarci e a ragionare sul modo di conservare le specie da una catastrofe, come in una sorta di ‘Armageddon’.

Immaginiamo di dover costruire un’Arca di salvataggio….

Ormai è risaputo che le specie viventi, piante o animali che siano, vengono danneggiate ed in certi casi portate all’estinzione principalmente dal cambiamento dell’ambiente, quindi per conservare le specie, l’eventuale Arca dovrebbe comprendere tutti gli ambienti naturali in cui vivono gli organismi. Questi ambienti non dovrebbero essere isolati perchè tra due ambienti con caratteri molto diversi, ne esistono altri di passaggio.

Per usare un termine più adatto, l’Arca dovrebbe comprendere tutti gli ecosistemi terrestri, compresa la ricostruzione dei climi che sono quanto mai variabili e differenti.

Sarebbe particolarmente interessante e complicato anche ricostruire le condizioni di pressione, temperatura, chimismo delle acque dolci e di quelle oceaniche per ospitare le specie acquatiche. Per chimismo intendo principalmente la concentrazione dei sali (già, perchè con un diluvio universale cambierebbe anche la salinità dell’acqua!).

Mentre scrivo mi rendo conto della moltitudine di problemi che si dovrebbero affrontare.

Non meno importante è capire da dove potrebbe arrivare così tanta acqua piovana da ricoprire le terre emerse, considerando che se anche si fondessero tutti i ghiacciai presenti sulla Terra, il livello marino si alzerebbe solo di circa 100m, ma sono innumerevoli gli spunti che si creano discutendo questo argomento.

Immaginiamo di dover fornire luce per mesi alle specie e agli ambienti polari mentre tutti gli altri ecosistemi dovrebbero ricevere il fotoperiodo giusto, cioè la giusta durata del giorno e della notte che cambia a seconda della latitudine.

Bisognerebbe ricostruire una moltitudine di ambienti di nicchia, in cui conservare la fauna e la flora delle grotte, degli abissi, delle sorgenti termali e se scrivessi tutti quelli che mi vengono in mente occuperei decine di righe inutilmente.

Le specie poi si regolano a vicenda attraverso competizione oppure aiuto reciproco (simbiosi) e servirebbe la quantità giusta di individui per ogni gruppo.

Insomma, e quindi secondo voi quanto dovrebbe essere grande quest’Arca?

Visto che siamo su un blog, tocca a me dire quello che penso e concluderò con un’esortazione che mi ricorda moltissimo quando da bambino, seduto sul castello di un Pioppo con i miei amici fantasticavo sulla ricerca del Santo Graal…

E’ inutile cercare l’Arca di Noè perchè la vediamo e la viviamo già tutti i giorni, ci camminiamo, ci nasciamo e moriamo.

Eh già. L’Arca doveva essere una copia esatta del nostro pianeta, ma se qualcuno vuol continuare a cercarla, con che diritto si può impedire agli uomini di sognare???

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