Il risveglio dei Campi Flegrei

Irene Fantone – ottobre 2015

Ogni esplosione ha un punto innesco ed il tempo che passa tra l’innesco e l’esplosione è quello utile per correre ai ripari. Ai Campi Flegrei, campo vulcanico campano, il tempo utile è inferiore ad un’ora. Questo è il risultato ottenuto dall’ equipe internazionale coordinata dal professor Donald Dingwell, dell’ università di Monaco. I ricercatori sono riusciti a cronometrare in laboratorio un’eruzione come quella che potrebbe verificarsi ai Campi Flegrei. Gli ingredienti per la ricetta esplosiva sono reali campioni di roccia vulcanica usandoli come se fossero orologi rotti sulla scena di un crimine, come spiega Diego Perugini, dell’Università di Perugia.

Vesuivio_Eruzione_1872
Vesuivio in eruzione – Fotografia di Giorgio Sommers, anno 1872 –

Studi precedenti avevano già dimostrato che l’innesco di un’eruzione esplosiva può consistere nel mescolamento di rocce fuse diverse, in serbatoi vulcanici profondi ed estremamente caldi. In seguito a tali mescolamenti, le rocce fuse arrivano a ribollire, per l’effetto dell’acqua e dei gas che contengono ed infine salgono verso la superficie rapidamente. Il risultato è uno degli spettacoli più impressionanti e disastrosi della natura: le testimonianze di chi vi ha assistito ed è sopravvissuto parlano di boati, esplosioni, colonne eruttive alte centinaia, anche migliaia di metri, nubi di cenere incandescente, piogge di fango e frammenti di roccia, eruzioni di lava, scosse sismiche.

Dice Dingwell: Sappiamoche molto spesso il tempo tra il primo contatto dei fusi a diversa composizione e la conseguente eruzione è troppo breve per permettere al miscuglio di omogeneizzarsi. E’ quanto è stato verificato per le lave dei Campi Flegrei. I geologi hanno infatti raccolto campioni di rocce vulcaniche e li hanno analizzati. Hanno così scoperto che le rocce eruttate in passato in quest’area portano ancora tracce di come erano fatte le rocce fuse prima di mescolarsi nella “pancia” del vulcano. I ricercatori hanno quindi riprodotto in laboratorio le temperature (1200°C) esistenti all’interno di un serbatoio vulcanico, hanno fuso i campioni di roccia e hanno prodotto dei mescolamenti.

I risultati sono stati pubblicati proprio in questi giorni da Nature Scientific Reports. Dingwell e la sua squadra sono riusciti a cronometrare la velocità con la quale la roccia fusa risale nel condotto vulcanico, fino ad eruttare. Velocità di 5-8 metri al secondo si traducono in un intervallo di poche decine di minuti, dal momento del mescolamento a quello dell’eruzione esplosiva. Questo risultato impressionante è fondamentale per comprendere come e con quali velocità vulcani quiescenti come i Campi Flegrei possano entrare in attività.

Campi Flegrei
Campi Flegrei

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Vesuvius_SRTM3.png

I Campi Flegrei sono una vasta area della Campania punteggiata da decine di centri vulcanici. Si tratta di un campo vulcanico attivo, monitorato costantemente a “livello di attenzione” per il rischio associato alla sua attività. Vengono tenuti sotto controllo i movimenti del suolo (bradisismo), l’attività sismica e le emissioni di gas e fluidi dal terreno (fumarole). La storia di questo campo vulcanico descrive un’alternanza di migliaia di anni di silenzio e momenti di intensa attività, con molte eruzioni di tipo esplosivo. Quasi 40000 anni fa, il maggiore evento esplosivo dell’area campana produsse colate incandescenti di vulcaniti e gas che ricoprirono un’area di circa 30000m2 , formando le rocce dell’Ignimbrite Campana. Ventimila anni dopo altre eruzioni sconvolsero l’area e una spessa coltre di cenere ricoprì con gran parte del territorio campano, formando il deposito del Tufo Giallo Napoletano. A testimonianza dell’attività del passato rimangono vari crateri, massicci di tufo e lava, isole vulcaniche. L’ultimo risveglio, l’unico di cui si possiedano testimonianze umane, risale al 1538 e diede origine al Monte Nuovo.

Per approfondire:

Paleodays 2015

Come ogni anno, con l’inizio dell’estate la Società Paleontologica Italiana si riunisce per l’annuale adunanza dei soci nel corso delle Giornate di Paleontologia. Quest’anno il congresso è giunto alla sua quindicesima edizione e si è tenuto a Palermo tra il 27 e il 29 maggio, organizzato dai docenti dell’Università degli Studi di Palermo nella suggestiva cornice dell’orto botanico del capoluogo siciliano. Com’è ormai tradizione da alcuni anni, anche Scienzafacile era presente all’evento, rappresentata da chi vi scrive che nelle righe che seguono vi riassumerà brevemente gli eventi e le novità nel campo paleontologico che hanno caratterizzato i tre giorni del congresso.

Il Ginnasio dell'orto botanico di Palermo
Il Ginnasio dell’orto botanico di Palermo

Prima di riportare la cronaca delle giornate, per così dire, “ufficiali” di congresso è doveroso spendere qualche parola a proposito dell’iniziativa che accompagna i Paleodays da alcuni anni, ossia la tavola rotonda di Paleontologists in Progress, in breve PaiP, organizzata dai giovani ricercatori soci della SPI che si riuniscono per discutere di questioni legate alla Paleontologia che vanno al di là delle ricerche presentate durante le sessioni del congresso. L’edizione palermitana della tavola rotonda si è tenuta nell’aula conferenze del Museo “G. G. Gemmellaro” di Palermo; le domande proposte dai partecipanti sono state una dozzina, ognuna delle quali ha poi fatto da spunto di discussione tra i presenti. Un aspetto interessante, che non è passato inosservato durante l’incontro, è che parecchi degli spunti esprimevano la difficoltà nel reperire finanziamenti e nel trovare sbocchi nel mondo del lavoro o per proseguire nel mondo della ricerca. E’ un’amara immagine dei problemi che la ricerca paleontologica incontra oggigiorno in Italia.

Dal canto loro, altre domande sono state più prettamente tecniche e hanno riguardato i software che si possono impiegare per svolgere analisi filogenetiche, l’esistenza di studi paleontologici riferiti al passato recente, inteso come gli ultimi 4000 anni, e un quesito venato di una certa nota filosofica circa la validità del termine Antropocene e se è effettivamente sensato definire con questo nome l’epoca moderna.

E’ stato un incontro senz’altro molto interessante, ricco di opportunità per confrontare le proprie idee ed esperienze, e si è degnamente concluso con la proiezione di uno spezzone dell’intervista fatta a Michael Benton dell’Università di Bristol in cui ha parlato del fenomeno dell’insularismo, cioè delle modifiche (soprattutto per quanto riguarda la taglia corporea) cui vanno incontro gli organismi che si vengono a trovare in un ambiente con spazio e risorse limitati qual è quello delle isole; la scelta è caduta su questo argomento in onore della città che ospita il congresso, capoluogo di un’isola famosa per casi eclatanti di questo fenomeno.

Le iniziative del PaiP non si sono però concluse con la tavola rotonda, proseguendo durante i tre giorni di congresso con un’asta in cui i soci della SPI hanno messo in palio vari articoli come fossili e piccoli gadget ma anche pezzi più pregiati come pubblicazioni assortite e libri. Il ricavato è stato devoluto a rimpolpare le casse della Società ed è stato anche piuttosto sostanzioso, avendo raccolto più di 200 euro. L’adesione è stata quindi numerosa e c’è da augurarsi che possa ripetersi anche negli anni a venire.

Nella mattinata di mercoledì 27 maggio si sono aperti ufficialmente i lavori del congresso con la riunione dei soci presso la sala conferenze dell’orto botanico. L’impostazione dell’evento è ormai consolidata – e immagino nota ai lettori più affezionati di questo blog – e consiste in una serie di comunicazioni orali della durata di circa un quarto d’ora ripartite in varie sessioni. Ovviamente è impossibile riportare nel dettaglio tutti gli argomenti trattati, ma fare anche solo un rapido elenco di quanto esposto può dare un’idea dell’ampia gamma di argomenti, gruppi e metodi di lavoro illustrati dai vari autori.

Dopo il saluto delle autorità ha avuto inizio la prima sessione, che ha principalmente riguardato i vertebrati cenozoici con lavori sui pesci dell’Eocene e del Miocene, sul contenuto dello stomaco dei cetacei, sulle faune marine del Pliocene toscano e sui vertebrati del Messiniano del Piemonte.

La seconda sessione si è aperta con la paleobotanica con due ricerche su flore fossili del Giurassico sardo e Leggi tutto “Paleodays 2015”

Quando due mondi collidono: il Grande Scambio Biotico Americano

Davide Bertè – gennaio 2015

13 gennaio 2015 – Scrivo una brevissima presentazione, soprattutto per ringraziare Davide per aver reso disponibile questo prezioso testo a lettrici e lettori di scienzafacile.it che troveranno curiosa questa raccolta di notizie, nonché utilissima nello studio della paleobiogeografia e paleoecologia.

Recentemente gli è stato commissionato un capitolo intitolato “Paleontologia e paesaggio” da inserire in un libro che parla del “Paesaggio” in senso ecologico, ovvero, una visione più ampia dell’ecosistema per cui vi riporto a due letture, ma prima leggete l’estratto di Davide che ci racconta dei ripetuti passaggi di mammiferi tra le due Americhe!

La prima lettura è in casa nostra, il primo articolo che ho pubblicato su scienzafacile in cui cerco di far capire che l’unica arca che potrebbe conservare integralmente la vita sulla Terra è la Terra stessa a causa dell’estrema variabilità e interazione degli ecosistemi  e la seconda in un libro del 1999 che cerca di spiegare cosa sia l’Ecologia del Paesaggio http://www.treccani.it/enciclopedia/ecologia-del-paesaggio_%28Frontiere_della_Vita%29/) .

Il libro per cui ha scritto Davide uscirà a breve in Brasile ma noi abbiamo una delle fonti che parla e scrive nella nostra lingua e siamo contenti di poterne approfittare!

Grazie Davide!!!

SR

Davide Bertè
Davide Bertè

Circa tre milioni di anni fa l’emersione dell’istmo di Panama mise in collegamento il continente nord americano con quello sud americano.

Il Sud America terminò così un lungo periodo di isolamento cominciato circa 84 milioni di anni fa, quando si era separato dall’Africa. L’apertura dell’Atlantico meridionale durante il Cretaceo Superiore, l’ultima epoca del Mesozoico, determinò quindi la separazione di Africa e America meridionale.

Quando avvenne la separazione, gli ecosistemi delle terre emerse erano ancora dominati dai grandi dinosauri ma i mammiferi erano già presenti e differenziati nei principali gruppi: prototeri o monotremi (che depongono le uova), metateri o marsupiali ed euteri o placentati.

Con la separazione dall’Africa animali e piante sudamericane si ritrovarono completamente isolati dal resto del mondo; circa 65 milioni di anni fa l’estinzione dei dinosauri rese disponibili numerose nicchie ecologiche e i mammiferi ebbero una straordinaria radiazione adattativa.

Il Sud America funse da enorme laboratorio naturale e le strade dell’evoluzione portarono i marsupiali qui presenti verso soluzioni adattative uniche. Molte delle forme evolute in Sud America erano endemiche di questo continente e non avevano corrispettivi nel resto del mondo. Tra i gruppi più importanti vi erano sicuramente gli xenartri, che devono il loro nome (in greco: “strana articolazione”) alla presenza di una articolazione accessoria tra le vertebre, assente in tutti gli altri mammiferi. Al superordine degli xenartri appartengono vermilingui (formichieri), pilosi (bradipi) e cingulati (armadilli). Tra i rappresentanti estinti di questo gruppo ricordiamo i gliptodonti, i bradipi di terra e i pampateri. Altri mammiferi erano inclusi nel superordine dei meridiungulata, che includevano piroteri (simili agli elefanti, con tanto di incisivi trasformati in zanne), astrapoteri (simile a un ippopotamo, forse con una piccola proboscide, zampe posteriori robuste e quelle anteriori esili), notungulati (un gruppo molto diversificato che includeva animali di taglia variabile tra quella di un coniglio e quella di un rinoceronte) e litopterni (simili ai camelidi, il rappresentante più famoso di questo gruppo è Macrauchenia). I predatori principali erano grossi uccelli inetti al volo. Tra i mammiferi predatori vi erano gli sparossodonti che includevano tilacosmilidi, borienidi e proborienidi.

Macraucheria

Pur avendo una dieta a base di carne, questi marsupiali non erano imparentati con l’attuale ordine Carnivora, appartenente ai mammiferi placentati.

Infine vi erano i paucitubercolati, un gruppo di piccoli mammiferi insettivori o frugivori a cui attualmente appartengono solo i cenolestidi o opossum-toporagno con un areale limitato alle Ande.

Di queste faune sorprendono soprattutto le convergenze evolutive di forme molto distanti tra loro verso soluzioni anatomiche simili, come per esempio la Macrauchenia, un mammifero litopterno sudamericano molto simile al lama, un camelide oggi diffuso nelle stesse aree e in ambienti simili. Darwin, durante il suo viaggio intorno al mondo sul brigantino H.M.S. Beagle, ebbe modo di osservare dei fossili di Macrauchenia e notò la grande somiglianza con i camelidi ma anche che il numero di dita che appoggiano per terra era differente. Pur avendo classificato erroneamente Macrauchenia tra i perissodattili (animali che appoggiano sul terreno un numero dispari di dita come cavalli, tapiri e rinoceronti) Darwin tuttavia ebbe, da questo incontro, uno stimolo a ragionare sulla convergenza evolutiva.

Thylacosmilus atrox

Una delle forme di convergenza evolutiva più peculiari è rappresentata sicuramente da Thylacosmilus, una tigre dai denti a sciabola marsupiale. La somiglianza con le vere tigri dai denti a sciabola è straordinaria, soprattutto considerando che Leggi tutto “Quando due mondi collidono: il Grande Scambio Biotico Americano”

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