Il Piccolo Drago e Il Gigante Ritrovato: Nuove Scoperte Sui Dinosauri

Daniele Tona  – Dicembre 2015

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Come è noto la paleontologia è una scienza in costante cambiamento: nuove scoperte si susseguono ogni anno a un ritmo incessante, e con esse nascono nuove ipotesi e cadono vecchi preconcetti. E’ raro che un’idea in paleontologia rimanga, si passi il gioco di parole, scolpita nella roccia, poiché basta che saltino fuori dei resti meglio conservati di quelli su cui tale idea si basa per sgretolare quello che fino al giorno prima era un dogma incrollabile.
I fossili sono nella maggior parte dei casi incompleti, talvolta consistono solo di un singolo frammento e ricostruire l’aspetto di un organismo estinto è più spesso che no un lavoro di congettura e speculazione tanto più attendibile quanto più completi sono i resti. Quando va bene ci si può basare sui parenti più stretti di quell’organismo, ma in molti casi si può solo azzardare delle ipotesi che ritrovamenti più completi possono in un secondo tempo ribaltare completamente.
Negli ultimi anni la paleontologia dei dinosauri è stata interessata proprio da questo fenomeno che ha rivoluzionato il modo con cui eravamo soliti vedere questi animali. E’ ormai un dato di fatto che gli uccelli sono a tutti effetti gli ultimi dinosauri rimasti, che le piume si siano evolute molto prima del volo e che erano molto più diffuse di quanto ritenga la cultura popolare (sebbene ultimamente anche i non addetti ai lavori comincino a essere consapevoli dello stretto legame tra dinosauri mesozoici e uccelli, e qua e là si scorgono teropodi piumati anche in opere non rivolte agli specialisti); anche noi di Scienza Facile abbiamo parlato del nuovo modo di vedere dinosauri e uccelli in questo articolo, che abbiamo in seguito aggiornato quando nuove scoperte hanno svelato ulteriori aspetti della questione. Ogni anno vengono alla luce nuovi dinosauri coperti di penne, e fra poco vedremo che anche un concetto relativamente recente come quello di “dinosauro piumato” può riservare sorprese inaspettate.
D’altro canto, le nuove scoperte possono riguardare anche animali noti già da molto tempo. Abbiamo già parlato ampiamente di Spinosaurus (qui e qui) e di come un recente studio abbia dato un nuovo aspetto e nuove probabili abitudini a un dinosauro scoperto ormai un secolo addietro. Altri dinosauri sono noti da una manciata di resti, e spesso dare loro un aspetto attendibile può essere molto difficile se non impossibile; si può stabilire a quale gruppo appartenessero, ma un identikit completo finirà sempre per discostarsi almeno in parte dalla realtà. Come vedremo più avanti, a volte può capitare che nuovi ritrovamenti permettano di gettare finalmente luce sulle reali fattezze di questi misteriosi dinosauri, e quello che emerge può essere ben lontano da ciò che per decenni ci siamo aspettati.

Ma andiamo con ordine, e parliamo del primo protagonista della nostra storia. Il lavoro di Xu et al. (2015) descrive un nuovo dinosauro teropode dalla località di Mutoudeng, nella provincia cinese di Hebei. Il dinosauro è stato battezzato Yi qi (pronunciato “ii cii”), che si può tradurre dal cinese mandarino in “ala strana”, in riferimento alla caratteristica più peculiare della sua anatomia.
L’olotipo, cioè l’esemplare su cui è basata la diagnosi del nuovo taxon, è uno scheletro parziale articolato e associato a tracce delle parti molli proveniente da strati della Formazione Tiaojishan; quest’unità si è depositata tra Calloviano e Oxfordiano, al passaggio tra Giurassico Medio e Superiore, quindi in un intervallo di tempo compreso all’incirca tra 164 e 155 milioni di anni fa.
L’olotipo è considerato un adulto per via del fatto che i centri vertebrali sono saldati alle spine neurali, e la massa corporea stimata dagli autori è di circa 380 grammi mentre le sue dimensioni erano grossomodo quelle di un gazza; Yi era quindi un dinosauro davvero piccolo. Il suo cranio è relativamente robusto, con grandi orbite, un muso corto e l’estremità anteriore della mandibola inclinata verso il basso; il premascellare porta quattro denti, dei quali il più anteriore è anche il più grande, mentre altri denti sono visibili sull’osso dentale della mandibola; piccoli e appuntiti, si pensa servissero soprattutto per mangiare insetti.
Passando alle zampe, l’arto anteriore possiede una scapola proporzionalmente corta e un omero lungo e robusto oltre a mostrare un allungamento estremo delle ossa della mano, in particolare del terzo dito in cui sia il metacarpo (l’osso del palmo) sia le falangi sono enormemente allungate, molto più delle ossa del primo e del secondo dito. Il carattere più straordinario di Yi è però senza dubbio la struttura associata a entrambi i polsi; ha la forma di una bacchetta leggermente incurvata che si assottiglia verso la punta, e da sola è più lunga dell’intero avambraccio. L’osservazione a elevato ingrandimento di queste strutture ha mostrato colore e aspetto superficiale simili a quelle delle ossa, un’interpretazione confermata dall’analisi della bacchetta associata al polso destro con spettrometria EDS (Energy Dispersive X-ray Spectrometry), da cui è emersa una composizione compatibile con quella di un osso o di un elemento scheletrico di cartilagine calcificata. Gli autori hanno denominato questa struttura elemento stiliforme; esso non ha pari tra i dinosauri, ma richiama strutture simili di altri tetrapodi, come l’osso pteroide degli pterosauri e l’elemento allungato che si estende dal polso dello scoiattolo volante Petaurista leucogenys.
Oltre all’elemento stiliforme l’altra caratteristica che rende significativo il ritrovamento di Yi è la presenza di parti molli conservate insieme alle ossa. Benché sia solo l’ultimo di una lunga serie di dinosauri piumati, è la combinazione delle parti molli rinvenute a renderlo unico; nello specifico si sono preservati due tipi di strutture tegumentarie: le penne e il tessuto molle membranoso.
Le penne sono sottili, rigide e filamentose. Attorno al cranio si osservano penne lunghe 15-20 mm, altre penne lunghe circa 30 mm crescono attorno al collo mentre penne di 35-60 mm sono attaccate all’arto anteriore e a quello posteriore, giù fino al metatarso (l’osso della pianta del piede) compreso. Le penne sono molto addensate in alcune aree, perciò non è facile capire se fossero o meno ramificate; alcune penne isolate mostrano però filamenti multipli, mentre la maggior parte delle penne sugli arti presenta una morfologia unica definita a pennello, con una struttura singola simile a un calamo e larga circa 1,2 mm che parte dalla base e si estende fino a tre quarti della lunghezza della penna per poi dividersi in numerosi filamenti paralleli più sottili.
Il tessuto molle membranoso è invece osservabile sotto forma di chiazze visibili tra gli elementi stiliformi e le dita di entrambe le mani. Queste chiazze hanno un aspetto laminato e in alcune aree mostrano evidenti striature che sono state interpretate come fibre interne oppure pieghe molto addensate del tessuto. Di certo questo tessuto membranoso non ricorda alcun tipo di tegumento osservato sugli altri teropodi mesozoici provenienti dalla Cina meridionale.
L’osservazione al SEM (microscopio elettronico a scansione) delle tracce di tegumento ha inoltre mostrato delle strutture che sono state interpretate come melanosomi, cioè organelli cellulari responsabili della produzione del pigmento chiamato melanina che conferisce colore alla pelle o, in questo caso, alle penne. Essi variano molto in termini di dimensione (spaziano dai 300 ai 2100 nanometri di lunghezza dell’asse maggiore), forma e densità di distribuzione, e alcuni sono fra i melanosomi più grandi mai osservati su penne fossili o attuali.
L’analisi filogenetica di Yi lo colloca tra i teropodi della famiglia degli Scansoriopterygidae, piccoli dinosauri caratterizzati dal terzo dito molto allungato che oltre a Yi comprendono i generi Epidexipteryx e Scansoriopteryx, vissuti nella sua stessa area ed epoca. Essi si collocano all’interno del gruppo dei Paraves, alla base del clade che comprende da una parte i Deinonychosauria (ossia dromeosauridi e troodontidi) e dall’altra gli uccelli e i loro precursori diretti del gruppo degli Avialae. Nonostante la posizione molto derivata della famiglia, gli scansoriopterigidi sono privi delle penne complesse degli altri Paraves e sono considerati un caso di divergenza morfologica estrema: sebbene braccia munite di penne complesse esistessero già nei teropodi, fino a quel punto nessuno di essi era stato in grado di volare; gli scansoriopterigidi rappresenterebbero quindi una sorta di “esperimento” della natura nelle prime fasi di evoluzione del piano corporeo dei teropodi verso una forma adatta al volo, una possibile soluzione in cui le penne delle braccia sono scomparse e sono state sostituite da una membrana tesa fra il terzo dito della mano allungato all’inverosimile e il corpo; nel caso di Yi tale membrana godeva anche del sostegno offerto dall’elemento stiliforme, mentre negli altri scansoriopterigidi non è stata ancora osservata, sebbene se a questo punto la sua presenza non sia da escludere anche negli altri generi del gruppo. C’è un che di ironico nel fatto che, se confermata, la peculiarità anatomica di Yi gli darebbe a tutti gli effetti l’aspetto di un piccolo drago: in cinese, infatti, “dinosauro” si dice kǒnglóng, che vuol dire “drago terribile”.

A questo punto la domanda sorge spontanea: Yi qi volava? E se sì, come? Gli autori sottolineano che i pochi casi noti di amnioti in possesso di elementi stiliformi usano invariabilmente queste strutture per sostenere membrane aerodinamiche che conferiscono loro la capacità di volare in modo planato o attivo, perciò è ragionevole pensare che l’elemento stiliforme di Yi avesse la stessa funzione. Tuttavia, l’unico esemplare finora rinvenuto è incompleto e perciò non è facile ricostruire con accuratezza l’orientazione dell’elemento stiliforme rispetto al polso e quindi la forma della membrana. La mancanza di estese superfici di inserzione dei muscoli e la possibilità che l’elemento stiliforme rigido e lungo interferisse con il movimento oscillatorio e rotatorio che il braccio avrebbe descritto durante un volo attivo lascia inoltre pensare che, se effettivamente Yi fosse stato in grado di volare, avrebbe fatto affidamento sopratutto al volo planato.
In ogni caso, sostengono gli autori e concorda il sottoscritto, se anche Yi non fosse stato un volatore avrebbe comunque rappresentato un caso unico fra i dinosauri di convergenza evolutiva con le ali di altri vertebrati volatori come pipistrelli e pterosauri. Di certo costituisce un esempio della varietà di morfologie sperimentate dall’evoluzione all’alba del cammino e poi del decollo dei dinosauri verso la loro ultima frontiera: il cielo.

novità riguardo i Dinosauri 1

L’altro protagonista di questo articolo è Deinocheirus mirificus, da sempre uno dei grandi enigmi della paleontologia dei dinosauri sin dalla sua scoperta nel 1965, nel corso della spedizione congiunta polacco-mongola condotta nel sito di Altan Uul III, nel deserto del Gobi meridionale. Sin da allora tutti i libri sui dinosauri riportarono l’immagine di due spaventose braccia lunghe due metri e mezzo, ciascuna munita di tre lunghe dita terminanti in acuminati artigli. Invero, il poco materiale fossile a disposizione è stato comunque sufficiente da permettere ai paleontologi di inserire Deinocheirus all’interno del gruppo degli Ornithomimosauria, ossia i teropodi che, per aspetto e probabili abitudini, ricordavano gli struzzi odierni (e di recente si è scoperto che erano anche coperti di piume come gli struzzi; ne abbiamo parlato anche noi di Scienza Facile in questo articolo[2]). A parte questo, però, l’effettivo aspetto di questo animale è rimasto un mistero per molto tempo, ad eccezione di un solo dettaglio: era un essere enorme.
Il velo di mistero che circondava Deinocheirus si è infine sollevato negli ultimi anni grazie ad alcuni ritrovamenti straordinari descritti dal lavoro di Lee et al. (2014) pubblicato su Nature. Due nuovi esemplari hanno infatti restituito abbastanza materiale scheletrico da poter ricostruire l’anatomia di Deinocheirus quasi nella sua Leggi tutto “Il Piccolo Drago e Il Gigante Ritrovato: Nuove Scoperte Sui Dinosauri”

Andiamo a vedere la Stella Marina del Grignone

La stella marina del Grignone
La stella marina del Grignone

Leggi anche: La Stella Marina del Grignone …sempre su scienzafacile.it

A Barzio è cominciata la Sagra delle Sagre e sarà di nuovo possibile andare ad osservare i vertebrati fossili delle Grigne e alcuni calchi di fossili trovati durante gli scavi dell’università di Milano.
L’estate della Valsassina e del Lecchese propone anche alcune interessanti serate scientifico-divulgative ed un’escursione tenute dal Professor Andrea Tintori, Paleontologo del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano. (dettagli in fondo all’articolo)
Lo scavo, la preparazione, lo studio di questi fossili e la realizzazione dei calchi ha richiesto diversi anni di lavoro sia sul campo, sia in laboratorio e molto sarà ancora da fare.
Eccomi quindi di ritorno in Università per realizzare alcuni nuovi calchi di fossili.
In realtà, ho solo dovuto pitturarli per renderli simili agli originali. La tecnologia utilizzata per questi calchi è infatti quella della scansione e della stampa 3D.
In Italia è diventato illegale realizzare le matrici (ovvero gli stampi) dei fossili in silicone per la colata successiva di resina o gesso.
Non ho molta esperienza di scansione e stampa 3D.
Da quello che ho visto fino ad ora però la qualità dei calchi che mi sono arrivati è piuttosto scarsa e il costo decisamente elevato.
Ho analizzato nel dettaglio l’originale della stella marina del Grignone e il suo calco, più che una copia di un fossile, sembra un quadro impressionista.

originale vs calco prima della colorazione
originale vs calco prima della colorazione

Da un metro di distanza sembra uguale all’originale, anche perchè come sempre l’ho dipinta con molta cura dei dettagli, ma da 50 cm sembra una carta geografica con le isoipse (le curve di livello) all’incirca ogni 0.1mm che danno solo l’idea di un rilievo a forma di stella (si vedono molto bene le caratteristiche della stampa in alto a sinistra nella foto di apertura).
Le spine e i limiti tra le varie piastre dello scheletro non si vedono minimamente…
Questo è un dettaglio insufficiente e inutilizzabile per qualsiasi fine di studio o esposizione di una certa qualità.
Anche pitturare la roccia è stato molto difficile perchè non ne viene riproposta la granulosiutà e non si possono dipingere i rilievi con la tecnica del pennello asciutto che ho sempre utilizzato per pitturare i calchi.
Non parliamo di quanto sarebbe inutile fare calchi di pesci con ornamentazione sulle ossa e sulle scaglie, finissimi raggi di pinne, ecc.

calchi di pesci fossili
calchi di pesci fossili

Scienzafacile è un sito propositivo, non disfattista, quindi ecco la mia proposta per risolvere la questione.
Non può essere la Sopraintendenza ai beni Archeologici ad occuparsi di paleontologia e a dettare le leggi a riguardo.
Per quanto mi riguarda sono i PALEONTOLOGI che dovrebbero dettare le leggi riguardanti i fossili e la Sopraintendenza dovrebbe solamente farle rispettare.

Ctenognatychthis
Ctenognatychthis

Comunque sia, i fossili del Grignone vi aspettano.
Non sono stati cercati per poi essere messi in cantina. Al contrario i lavori e lo studio su questi esseri viventi del passato sono  attivi ed è possibile seguire il tutto pubblicamente, ai piedi delle montagne da cui provengono i reperti.
Buone vacanze da scienzafacile.it

…e fatevi un bel giro in Valsassina!

Ste e la stella colorata!!!
Ste e la stella colorata!!!

Il programma delle serate:

Lunedì 12 Agosto h 20:30 a Esino Lario, edificio Asilo.

Mercoledì 14  Agosto h 20:30 a Barzio, sala civica.

http://www.valsassinanews.com/index.php?page=articolo&id=13910

Escursione guidata agli Scudi del Grignone:

Ritrovo sabato 17 agosto h 9:00 al laghetto dell’Alpe Coa.

Prenotazione obbligatoria per salita in Auto e assicurazione, presso la sede della Comunità montana “Valsassina, Valvarrone Val d’Esino e Rivera”.

GIORNATE DI PALEONTOLOGIA A PERUGIA, 23-25 MAGGIO 2013

Daniele Tona 7 giugno 2013

Daniele Tona e il livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico - Gola del Bottaccione nei pressi di Gubbio
Daniele Tona e il livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico – Gola del Bottaccione nei pressi di Gubbio

 Nei giorni 23, 24 e 25 maggio 2013 si è tenuto l’annuale appuntamento con le Giornate di Paleontologia, il congresso della Società Paleontologica Italiana giunto alla sua tredicesima edizione. Quest’anno il simposio è stato organizzato dall’Università di Perugia, che ha ospitato i lavori all’interno del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria situato nel chiostro dell’adiacente Basilica di San Domenico, in pieno centro storico del capoluogo umbro. Come ogni anno, paleontologi da tutta Italia hanno presentato i loro lavori, chi sotto forma di comunicazione orale e chi tramite uno dei molti poster sistemati sotto il porticato del chiostro.

Anche quest’anno Scienzafacile era presente alle Giornate con la sua piccola delegazione, composta da chi scrive nei panni di cronista e dall’amico Davide Bertè, che al contrario del sottoscritto è stato assai più produttivo e ha portato una comunicazione sui resti di lupo rinvenuti nella Grotta Romanelli nel Salento e un poster sulla simpatria tra specie di Canis nell’Italia del Pleistocene Inferiore.

Per prima cosa vorrei riportare due interessanti iniziative che hanno coinvolto i partecipanti più giovani al congresso. La prima, proposta direttamente dall’organizzazione e inaugurata l’anno scorso, è un concorso per ricompensare l’impegno delle nuove leve in cui sono stati premiati con una somma di denaro la miglior comunicazione ed il miglior poster presentati da un socio under 30.

La seconda è un’iniziativa nata da un gruppo di soci non strutturati della SPI battezzata Palaeontologist in Progress (o PaiP), collaterale al convegno ma patrocinata dagli organizzatori e dalla stessa Società. Si tratta di una tavola rotonda tenutasi mercoledì 22 maggio al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Perugia, dove si è discusso di varie tematiche legate alla paleontologia, alcune di carattere più accademico, quali il concetto di specie e sottospecie e l’applicazione dell’osteologia allo studio dei reperti fossili, altre invece più incentrate sulla figura del paleontologo in sé, sul suo riconoscimento presso le pubbliche amministrazioni e sulla possibilità di accedere a collezioni e database elettronici. Cosa ancor più importante, sono state discusse delle proposte poi avanzate nel corso del consesso dei soci di sabato: la prima propone, con tanto di raccolta firme, di rinunciare o quantomeno rendere facoltativa la versione cartacea del Bollettino SPI così da ridurre le spese di stampa e soprattutto di spedizione della pubblicazione, investendo poi il denaro risparmiato in fondi per studenti, dottorandi e altri soci non strutturati; la seconda proposta è stata più che altro un invito ai soci a organizzare incontri a scopo divulgativo nelle proprie città, appoggiandosi al PaiP e alla SPI per ottenere un patrocinio formale e anche la collaborazione e partecipazione di altri soci. Il tutto allo scopo di dare maggior visibilità alla figura del paleontologo e anche di avvicinare i non addetti ai lavori al mondo della paleontologia.

Veniamo dunque al primo giorno ufficiale di congresso, giovedì 23 maggio, che si è aperto con il discorso di benvenuto da parte delle autorità, nella fattispecie il curatore del Museo Archeologico, a cui è seguita la comunicazione del relatore ospite Jordi Agustì, dell’Istituto Catalano di Paleoecologia Umana e Evoluzione Sociale, che ha presentato uno studio sull’effetto indotto dalle variazioni climatiche tra la fine del Pliocene e il Pleistocene Inferiore, in particolare sugli spostamenti degli ominidi. Agustì ha illustrato il sito di Dmanisi in Georgia, nel quale sono stati rinvenuti resti datati a 1,8 milioni di anni fa e attribuiti a Homo georgicus, e quello di Barranco Leon in Spagna, contenente le più antiche (1,3 milioni di anni fa) testimonianze umane in Europa occidentale. Dallo studio è emersa una correlazione tra l’età delle migrazioni umane e il clima, dove le principali fasi di dispersione corrispondono a periodi caratterizzati da condizioni più calde e umide rispetto a oggi.

Dopo questo intervento inaugurale ha avuto il via la serie di comunicazioni presentate dai partecipanti al congresso; divise in tre sessioni di 6-7 interventi, e intervallate da pause durante le quali era possibile rifocillarsi coi prodotti locali offerti dall’organizzazione, hanno coperto un ampio spettro di epoche e gruppi tassonomici. Nel corso della mattinata si è discusso di brachiopodi e di conodonti permiani, di ammonoidi triassici, della fauna cambriana di Chengjiang, di icnofossili (sia più in generale in merito alle loro relazioni reciproche, sia nel dettaglio con riguardo alle tracce di tetrapodi del Permiano del nord Italia), di pesci (con un lavoro sulla fluidodinamica delle scaglie e uno di sistematica), di foraminiferi e di molluschi.

Le presentazioni del pomeriggio hanno riguardato i nannofossili calcarei e poi una serie di lavori sui vertebrati, con mammiferi, uccelli e anfibi sotto i riflettori. La sessione si è conclusa con una comunicazione inerente lo studio dei dati lito, bio e magnetostratigrafici (vale a dire, le caratteristiche rispettivamente delle rocce, dei fossili e del segnale paleomagnetico) della porzione paleocenica nella successione della Gola del Bottaccione, non lontano da Gubbio, allo scopo di determinare la sua compatibilità con la vicina sezione della Contessa e con altre coeve nel mondo.

Livello a iridio della Gola del Bottaccione - Foto di Daniele Tona
Livello a iridio della Gola del Bottaccione – Foto di Daniele Tona

Quest’ultima comunicazione è stata un preambolo alla breve escursione tenutasi nella seconda parte del pomeriggio proprio nella Gola del Bottaccione dove, guidati dalla professoressa Isabella Premoli Silva e dal professor Rodolfo Coccioni che hanno studiato estensivamente la sezione, i congressisti hanno potuto ripercorrere attraverso il Cretaceo la successione di strati della formazione della Scaglia Rossa fino al livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico; si tratta dell’ormai celeberrimo livello argilloso contenente quantità anomale di iridio, elemento molto raro nella crosta terrestre ma abbondante nei meteoriti, sulla base del quale il gruppo di lavoro di Walter Alvarez elaborò nel 1980 la teoria secondo cui la crisi biologica verificatasi 65 milioni di anni fa è da attribuirsi a (o comunque ha tra le sue concause) l’impatto con un meteorite il cui cratere è stato in seguito trovato al largo della penisola dello Yucatan. Gli studi della Premoli, di natura micropaleontologica, hanno individuato ulteriori prove di quanto accaduto nelle comunità di foraminiferi planctonici osservate nelle rocce della sezione: laddove gli ultimi strati del Cretaceo di calcare biancastro contengono associazioni ricche ed eterogenee, lo strato ricco di iridio è del tutto disabitato, mentre i successivi strati di calcare rossastro dell’inizio del Paleocene sono popolati solo da forme piccole e poco diversificate ascrivibili a una sola specie, Globigerina eugubina, così chiamata proprio perché scoperta in quelle rocce vicine a Gubbio.

Qui mi permetto di accantonare per un attimo il distacco del cronista per dire quanto mi abbia impressionato osservare dal vivo un sito così iconico non solo per la sua importanza scientifica e storica, ma anche perché mostra materialmente la fine di un’era e l’inizio di un’altra, con quel livello spesso una spanna stretto fra gli ultimi strati del Cretaceo e i primi del Paleocene che rappresenta un lasso di tempo in cui l’intero pianeta è stato sconvolto; è come leggere un libro in cui è narrata la quiete prima della tempesta, seguita da un breve quanto apocalittico capitolo, e poi la cronaca del nuovo mondo dopo il cataclisma. A onore del vero credo che il mio sia stato un sentimento comune, almeno a giudicare da quanti, indipendentemente dall’età e dalla posizione accademica occupata, si sono fatti fotografare accanto al leggendario livello.

Il secondo giorno di congresso è stato interamente dedicato all’escursione sul terreno, nel corso del quale sono state toccate varie località dell’Umbria di interesse paleontologico. La prima in ordine di tempo è stata la Foresta Fossile di Dunarobba, situata nei pressi di Avigliano Umbro.

Tronco fossile di Dunarobba - Foto di Daniele Tona
Tronco fossile di Dunarobba – Foto di Daniele Tona

Questo sito è caratterizzato dalla presenza di resti di una cinquantina di tronchi fossili rinvenuti in molti casi ancora in posizione di vita; la peculiarità è che, pur avendo 2,5 milioni di anni di età, il loro legno si è perfettamente conservato grazie all’argilla che li ha rapidamente seppelliti in una condizione descrivibile al meglio come una mummificazione, preservandoli dall’aggressione di microbi e batteri e dalla furia degli elementi. La Foresta Fossile è compresa nell’unità denominata pliocenica del Fosso Bianco, che consiste in sedimenti prevalentemente argillosi di ambienti lacustri poco o relativamente profondi del cosiddetto Bacino Tiberino, oggi corrispondente alla media valle del Tevere. La Foresta Fossile sorgeva presso una palude lungo il margine di questo bacino, nella quale si depositavano sedimenti pelitici il cui accumulo lento ma costante unito a una rapida subsidenza ha sepolto rapidamente i tronchi in un involucro di argilla isolante prima della loro decomposizione. Dall’analisi del contenuto paleobotanico (fruttificazioni e pollini) dei sedimenti circostanti si ipotizza che i tronchi appartengano a delle Taxodiaceae, sebbene un’identificazione più precisa non sia possibile poiché è molto difficile associare fra loro resti vegetali diversi come elementi lignei e polline; l’associazione botanica suggerisce inoltre che la Foresta Fossile sia cresciuta in una fase del Pliocene con un clima più caldo rispetto all’attuale. I tronchi fossili sono noti fin dal 1600, e nel corso del XX secolo sono stati esumati in seguito alle operazioni di estrazione dapprima della lignite e poi dell’argilla. Oggi gran parte degli esemplari è esposta e visibile, protetta dalle intemperie da delle tettoie, anche se attorno ad alcuni tronchi è stata costruita una struttura chiusa a temperatura e umidità controllate allo scopo di preservarli al meglio. Il loro disseppellimento li ha infatti privati dell’ambiente confinato che li ha protetti così a lungo, e nel trovarsi esposti all’azione degli agenti atmosferici molti di essi sono andati incontro a fenomeni di alterazione che li stanno letteralmente disgregando.

Da Dunarobba l’escursione è poi proseguita toccando una serie di località presso le quali sono visibili i depositi marini plio-pleistocenici che si sono accumulati nel Bacino della Valdichiana, più a ovest rispetto al Bacino Tiberino. I vari stop hanno riguardato sezioni formatesi in vari contesti del bacino, da quello costiero a quelli più distali e profondi, in un lasso di tempo compreso tra la fine del Pliocene (Gelasiano) e il Pleistocene Inferiore (Santeriano).

Presso Scoppieto affiora un deposito di clasti di dimensioni variabili dai ciottoli di alcuni centimetri fino anche a blocchi metrici, prodotti dall’azione combinata del moto ondoso e dal crollo di porzioni della falesia stessa. Gran parte dei clasti è intaccata dall’azione di organismi come i bivalvi litodomi (genere Lithophaga), che si insediavano all’interno dei ciottoli corrodendoli e formando le peculiari cavità a forma di goccia, o i poriferi; oltre ad essi v’erano anche organismi incrostanti come ostreidi e balanidi.

Lo stop successivo è stato alla cava di S. Lazzaro in località Ficulle. Si tratta di una vecchia cava ormai dismessa in cui è visibile una successione di sabbie fini limoso-argillose depositatesi in ambiente tranquillo e poco interessato dall’azione del moto ondoso. Ciò ha permesso l’accumulo e la conservazione di grandi quantità di fossili; il colpo d’occhio giungendo sul sito è davvero impressionante, con il sedimento marrone e beige punteggiato da una miriade di frammenti bianchi, che se osservati attentamente si rivelano essere tutti fossili, da frammenti di pochi millimetri fino a conchiglie grandi come piattini da caffè, appartenuti soprattutto a bivalvi e gasteropodi qui rappresentati da almeno una cinquantina di specie diverse.

Fossili della cava di San Lazzaro - Foto di Daniele Tona
Fossili della cava di San Lazzaro – Foto di Daniele Tona

In seguito l’escursione ha fatto tappa a Città della Pieve, presso la quale è visibile una successione di ambiente deltizio, più precisamente la parte più distale del fronte del delta. La sezione mostra strutture sedimentarie attribuibili a dune sabbiose sottomarine, la cui base è marcata da shell beds contenenti quasi esclusivamente Flabellipecten flabelliformis; sono anche stati rilevati segni di bioturbazione ascritti agli icnogeneri Thalassinoides e Ophiomorpha.

Shell beds di Città della Pieve - Foto di Daniele Tona
Shell beds di Città della Pieve – Foto di Daniele Tona

L’ultima tappa dell’escursione ha avuto luogo presso il Museo Paleontologico recentemente allestito a Pietrafitta. Questa struttura ospita una vasta collezione di resti rinvenuti durante le operazioni di estrazione della lignite nell’area circostante il paese; il contributo maggiore nell’assemblaggio di tale collezione si deve a Luigi Boldrini, che per più di vent’anni ha raccolto i fossili che venivano riportati alla luce e a cui il museo è doverosamente intitolato. La collezione del museo di Pietrafitta rappresenta un’importante associazione fossile del Pleistocene Inferiore, in particolare dell’ultima parte dell’età a mammiferi denominata Villafranchiano, e più precisamente appartiene all’unità faunistica di Farneta databile a circa 1,5 milioni di anni fa. I depositi di lignite nei quali sono state trovate le ossa fanno parte della successione sedimentaria del Bacino di Tavernelle, e nella fattispecie i livelli fossiliferi fanno capo al subsintema (sottounità del sintema, unità di base del sistema a limiti inconformi) di Pietrafitta, che rappresenta un’area paludosa interessata da elevata produzione di materia organica, probabilmente ubicata in prossimità di un bacino lacustre a sedimentazione fine che in occasione di eventi eccezionali trasportava il sedimento argilloso verso la palude, formando i livelli a invertebrati d’acqua dolce che intercalano le ligniti. Queste ultime sono state formate soprattutto dall’accumulo di piante erbacee, ma non mancano alcuni tronchi anche piuttosto grandi, uno dei quali si trova proprio all’ingresso del museo. La collezione del museo è esposta in una grande sala circolare dove, dopo alcuni pannelli sull’inquadramento storico e geologico del sito, una serie di vetrine ospita i resti fossili organizzati per gruppo tassonomico: vi sono resti frammentari di pesci, varie ossa di anfibi (tra cui l’ultima presenza nota del genere Latonia), rettili (con vipere e la testuggine palustre Emys orbicularis) e uccelli (varie forme acquatiche o legate ad ambienti prossimi all’acqua, più una terricola comparabile a Gallus). I mammiferi sono rappresentati da vari roditori tra cui il castoro Castor fiber plicidens, dal primate Macaca florentina-sylvanus, da una delle ultime segnalazioni di Ursus etruscus e dal mustelide Pannonictis nestii. I grandi erbivori annoverano il rinoceronte di piccola taglia Stephanorhinus con una specie affine a S. hundsheimensis, il bovide Leptobos (che in virtù della morfoglogia delle corna è stato avvicinato a L. vallisarni) e due cervidi, il più piccolo Pseudodama farnetensis e l’assai più grande Praemegaceros obscurus. I fossili più spettacolari appartengono però al proboscidato Mammuthus meridionalis, del quale sono esposti alcuni esemplari al centro della sala; questi non sono stati montati, ma sono ancora conservati nella stessa condizione del loro ritrovamento sorretti dalle cosiddette “culle” in cemento, che altro non sono se non il rivestimento protettivo in cui sono stati avvolti per l’estrazione; ciò che si vede è quindi il lato inferiore del blocco opportunamente preparato per mostrare le ossa. Allo stesso modo è esposto uno dei due scheletri di rinoceronte (l’altro è invece montato) conservati nella saletta laterale dove i partecipanti al congresso hanno assistito a una breve performance canora di un coro femminile, a seguito della quale si è tenuta la cena sociale che ha concluso degnamente la seconda giornata.

Rinoceronte al museo di Pietrafitta - Foto di Daniele Tona
Rinoceronte al museo di Pietrafitta – Foto di Daniele Tona

La terza e ultima giornata di congresso è stata interamente dedicata alle comunicazioni orali, tenutesi pure in questo caso al Museo Archeologico di Perugia. Anche in questa serie di sessioni sono stati toccati numerosi argomenti, fra cui conodonti ordoviciani, nannofossili calcarei e pesci del Cretaceo, gasteropodi e coralli dell’Eocene e, per arrivare in tempi più recenti, macromammiferi del Messiniano ed elefanti del Pleistocene.

Nella seconda sessione mattutina è stato dato ampio spazio agli organismi bentonici, con comunicazioni inerenti i rodoliti algali miocenici, i banchi a nummuliti e le comunità associate ai coralli di mare profondo dello Ionio; sono poi stati presentati ben due lavori sugli organismi planctonici calcarei e studi più vari sull’ambra dei Calcari Grigi, sul record fossile dei varani italiani e sugli ostracodi del lago albanese di Scutari.

La terza e ultima sessione, tenutasi dopo pranzo, si è focalizzata sui vertebrati. A parte una comunicazione di argomento paleobotanico sulle macrofite del lago di Pietrafitta, le altre hanno riguardato anfibi (Rana temporaria) e mammiferi (i lupi della Grotta Romanelli, i proboscidati dell’Eritrea e il canide Cuon dall’Italia meridionale), o più in generale associazioni fossili (Coste San Giacomo e Vallone Inferno), e anche una presentazione della collezione di mammiferi fossili conservati all’Università di Messina.

Nella seconda parte del pomeriggio si è tenuto il consiglio della Società Paleontologica Italiana, in cui si è discusso delle iniziative future e più in generale del futuro della società e della paleontologia in Italia. Non starò a tediare con i dettagli chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto, mi limito solo a menzionare l’annuncio della sede in cui si terrà l’edizione 2014, che sarà a Bari.

Giunto al momento di tirare le somme posso dire con grande piacere che anche l’edizione 2013 delle Giornate di Paleontologia è stata un’esperienza molto positiva, al pari con le precedenti. Dopo aver partecipato per tre anni al congresso non posso che rimarcare il valore di questo evento annuale che permette ai paleontologi di tutta Italia di riunirsi per scambiarsi pareri, opinioni e conoscenze (e anche per ritrovarsi tra amici, perché no), oltre che per recarsi in siti che altrimenti, per un motivo o per l’altro, non si avrebbe l’opportunità di visitare in altre occasioni.

In aggiunta a ciò, è doveroso evidenziare come, anno dopo anno, la presenza e la partecipazione dei giovani (ricercatori, studenti, dottorandi o anche semplici appassionati) sia stata sempre più importante. Posso personalmente testimoniare come il numero dei giovani presenti alle Giornate SPI sia stato sempre più grande, da meno di un terzo dei partecipanti nel 2011, a metà dei presenti l’anno scorso, fino a quest’anno dove erano praticamente la maggioranza. E il contributo della nuova generazione di paleontologi si è fatto sentire anche a livello organizzativo, visto che col rinnovo dei membri del corpo gestionale della SPI avvenuto nelle due ultime edizioni si è assistito a un netto ricambio generazionale all’interno del consiglio.

Questo supera persino quanto auspicai a suo tempo a proposito dell’edizione 2012, perché conferma

che lo studio della paleontologia è più vivo che mai nel nostro paese. Vedere come ogni anno sempre più giovani partecipino a eventi come le giornate SPI dovrebbe essere uno sprone alle istituzioni affinché investano di più nella ricerca, e consentano a tutti coloro che coltivano la passione per lo studio della paleontologia di poter dare il loro contributo. Purtroppo i tempi difficili in cui viviamo non permettono di investire quanto si dovrebbe, ma bisognerebbe avere una visione più ampia delle cose, e guardare al futuro per mantenere viva una scienza così affascinante.

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